Che gli animi degli artisti siano ribelli è risaputo. Lo si nota dalle mosse di molti di loro sul palco, da determinati arrangiamenti e anche da alcuni testi delle loro canzoni. Persino cantautori apparentemente pacati e “innocui”, associati a romantiche ballad da ascoltare in riva al mare, come Ed Sheeran, compongono poi brani come You Need Me, I Don’t Need You o Eraser, che di amorevole non hanno proprio nulla. Tuttavia, nel panorama musicale non mancano delle autentiche “teste calde”. Si tratta di cantanti e musicisti che durante delle performance live hanno sfogato le proprie emozioni con teatralità, distruggendo parte dell’allestimento scenico o, molto più frequentemente, degli strumenti. Questi episodi di vandalismo durante i concerti hanno un’origine non così lontana e hanno assunto la definizione di Instrument Destruction.
Chi è stato l’ideatore del gesto?
Non c’è dubbio che assistere a una scena così forte, al tempo stesso ripugnante e affascinante, desti interesse, nonostante le polemiche. Infatti, quel pianoforte in fiamme fu solo il primo di una lunga serie di strumenti sacrificati da musicisti in nome della teatralità, dello spettacolo e della ribellione.
La celebrazione dell’arte distruttiva: il Destruction in Art Symposium
Addirittura, nel 1966 a Londra, un gruppo di artisti provenienti da tutto il mondo partecipò al Destruction in Art Symposium, ovvero, letteralmente, al primo Simposio di Distruzione in Arte. Stando ai comunicati stampa risalenti all’epoca, l’obiettivo di questo evento era quello di focalizzare l’attenzione sull’elemento di distruzione durante gli spettacoli e altre forme d’arte, associando quel gesto estremo alla società. Al raduno londinese furono presenti anche Yōko Ono, che al tempo aveva da poco conosciuto John Lennon, e l’artista Raphael Montañez Ortiz. Quest’ultimo, per l’occasione, fu protagonista di sette concerti, tutti culminanti con la distruzione degli strumenti, compreso il suo pianoforte personale.
Due anni dopo quel raduno così sconvolgente e rivoluzionario ma allo stesso tempo seguito da molti, si tenne un simposio a New York. In questa occasione, però, l’atto vandalico assunse una connotazione che andava oltre la teatralità. Infatti, gli artisti che vi parteciparono lo fecero con l’intento di opporsi alla distruzione, sconsiderata e priva di senso, sia della vita umana che dalla natura, riscontrata attraverso i reportage della guerra del Vietnam.
L’Instrument Destruction nella storia del rock
Tuttavia, dopo il pianoforte in fiamme di Jerry Lee Lewis, un’azione così scandalosa e rivoluzionaria non poteva non entrare nella storia del rock più moderno, le cui radici risalgono ai primi anni Sessanta. È proprio qui, in un’atmosfera intrisa di fermento musicale e culturale, che compare il nome di Pete Townshend. Il leader degli Who è probabilmente lo “sfascia-chitarre” più celebre, eppure si dice che la prima volta che ruppe un suo strumento fosse per puro caso. Sembra che Townshend e la sua band avessero appena terminato un concerto in un locale, quando il leader della band, togliendosi la chitarra che portava a tracolla, fece urtare il manico del suo strumento spezzandolo. Rabbioso per l’accaduto, Pete avrebbe iniziato a sbattere per terra il rimanente della chitarra, fino a distruggerla del tutto.
La prima chitarra martoriata attirò l’interesse del pubblico, rendendo ancora più famosi i The Who, tanto che i vari membri cominciarono a distruggere i loro strumenti a ogni concerto. Infatti, ancora oggi Pete Townshend è ritenuto il chitarrista più teatrale della sua generazione e non solo. Vederlo sul palcoscenico ammalia, mentre si muove in continuazione ed esegue la particolare tecnica del windmill (“mulinello”), influenzata da Keith Richards. Consiste in una plateale rotazione del braccio destro prima di suonare un accordo. È come se Townshend venerasse la sua chitarra per tutta la durata dello show, ne mostrasse le sue possibilità e per poi sfogare tutte le emozioni accumulate su di essa. La spiegazione dell’artista per quel suo rito:
Distruggo la mia chitarra sull’altoparlante perché è di grande effetto visivo. È molto artistico. Si ottiene un suono tremendo e l’effetto è grandioso…
Con Pete Townshend l’Instrument Destruction sul palco raggiunse l’apice. Seguirono il suo esempio molte altre icone rock. Per esempio, i The Clash utilizzarono l’immagine di una chitarra in frantumi per la copertina del loro album London Calling, mentre riproposero il gesto direttamente in concerto Jeff Beck dei Yardbirds, Kurt Cobain dei Nirvana e persino un Lord come Paul McCartney.
Il sacrificio della Fender di Jimi Hendrix
Se si parla di Instrument Destruction non si può non ricordare il 31 marzo 1967, quando al Monterey Pop Festival, Jimi Hendrix bruciò la sua prima chitarra. Si trattava di una bellissima Fender Stratocaster, che venne data le fiamme al termine di una complessa e intricata esibizione di Wild Thing. Chi era presente a quel momento iconico della storia del rock e della musica in generale disse nel proprio resoconto:
Hendrix impressiona per il suo modo di trattare la chitarra. Spinge al massimo il volume degli amplificatori, lavora sulla distorsione del suono e introduce cacofonie mai ascoltate prima. Di fronte a tanta forza gli spettatori sono divisi.
Quella sera il chitarrista numero uno al mondo si spinse talmente oltre nell’esecuzione del brano che arrivò a suonare lo strumento persino con i denti. Ma non era sufficiente. Riecheggiata l’ultima nota, Hendrix s’inginocchiò e bruciò la chitarra, lasciando che prima il fragore poi scoppiettio delle fiamme si propagandassero attraverso le casse. Poi, così, come se non avesse appena segnato pagine e pagine dell’enciclopedia musicale, se ne andò.
La volta in cui ho bruciato la mia chitarra fu come un sacrificio. Si sacrificano le cose che si amano. Io amo la mia chitarra.
L’Instrument Destruction oggi
Tra pianoforti e chitarre in fiamme e strumenti distrutti, l’Instrument Destruction non solo è diventata un rito per molti artisti iconici della storia della musica. Infatti, è anche un gesto estremo a cui le nuove generazioni si sono ispirate. In anni più recenti, il titolo di “sfascia-chitarre” è passato sia a Matthew Bellamy, frontman dei Muse, che a Billie Joe Armstrong, leader dei Green Day. La voce di Time Is Running Out e Starlight ha ottenuto nel 2010 il Guinness World Record per il maggior numero di chitarre distrutte durante il tour, mentre l’American Idiot per eccellenza non è stato insignito di alcun titolo, ma è entrato nel novero dei musicisti distruttori del proprio strumento.
Resta indimenticabile la sua sfuriata sul palco dell’iHeartRadio Music Festival del 2012. Billie venne Interrotto e invitato a lasciare lo stage insieme al resto della band, ben venti minuti prima della scadenza del tempo a disposizione. Da buon punk rocker, reagì sfasciando la sua chitarra. L’esibizione dei Green Day era stata tagliata per dare maggior spazio agli artisti più attesi dal pubblico, quali Rihanna e Justin Bieber. Tuttavia, Armstrong prima di allontanarsi dai riflettori volle riportare in auge il gesto icona del rock, in segno di protesta e di dissenso.
Il significato del gesto
È impossibile trovare un’unica spiegazione a un gesto tanto forte quanto estremo. Infatti, se Hendrix ne aveva sottolineato un aspetto quasi spirituale, al crocevia tra un autentico sacrificio e una catarsi personale, molti altri ne hanno invece evidenziato la componente teatrale e scenica. A queste due spiegazioni, bisogna aggiungere quella di protesta politica. Le rock star degli anni Sessanta e Settanta non hanno mai avuto paura di svelare il loro pensiero attraverso i testi delle canzoni. Vandalizzare l’allestimento scenico e distruggere i propri strumenti era sicuramente un modo per mettere ancora più in mostra questo malessere nei confronti della società. Benché oggi un episodio di Instrument Destruction sia da intendersi più come una trovata scenica che di critica sociale, resta un omaggio ai grandi predecessori del passato e fa rivivere nei live odierni un po’ di quella sana e al tempo stesso folle ribellione che ha fatto la storia.