La tecnologia solare termodinamica, nota anche come Concentrating Solar Power, permette la conversione di radiazione solare in energia termica.
L’elemento fondamentale è un concentratore, ovvero un dispositivo formato da specchi che focalizzano i raggi solari su un ricevitore, che può essere un tubo o un serbatoio. Il termovettore, il fluido che conduce il calore, scorre all’interno del ricevitore, riscaldandosi ad alta temperatura. Il fluido può essere di diversa natura e la scelta dipende dalla tecnologia adottata e dalle temperature cui si vuole arrivare. Il ricevitore può essere disposto sul terreno orizzontalmente, o verticalmente (quest’ultima disposizione è frequente in Spagna).
A differenza del fotovoltaico, in un impianto solare termodinamico la radiazione solare non viene direttamente trasformata in energia elettrica. La radiazione solare diretta viene raccolta e concentrata sotto forma di energia termica e accumulata in sistemi di stoccaggio. Il calore è poi impiegato sotto forma di energia termica oppure, producendo vapore, può essere trasformato in elettricità. In altre parole, produce elettricità anche in assenza di sole diretto, per esempio di notte o quando il cielo è coperto.
Nel 2000 il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia guida l’ENEA alla realizzazione di una tecnologia che preveda l’uso dei sali fusi come fluido termovettore nel ricevitore. I sali fusi (sodio e potassio) non sono inquinanti o infiammabili, ma li si adopera spesso in agricoltura come fertilizzanti naturali. Si parla pertanto di tecnologie nuove, per cui investire risulta essere dispendioso e rischioso. Pertanto, finché non saranno abbastanza mature da poter reggere le dinamiche di mercato, vengono sorrette da incentivi.
Parliamo di un’invenzione italiana, una tecnologia che porta il marchio made in Italy, che tuttavia, è ancora sconosciuta sul nostro territorio. Si potrebbe persino affermare che gli impianti realizzati sul territorio nazionale siano pari a ZERO. Perché?
All’estero piacciono, ma in Italia il terreno non è fertile, a tal punto che lo stesso inventore si è poi spostato in Spagna. Diverso in Cina, dove si intende raggiungere nei prossimi 5 anni 5 mila megawatt. Lo stesso Egitto ha annunciato l’intenzione di volere raggiungere gli 1,2, GWe, per non parlare dell’Oman, dove si utilizzano impianti solari termodinamici per l’estrazione di petrolio. Tuttavia, come già accennato, in Italia il settore non riesce a crescere. L’Anest, Associazione Nazionale Energia Solare Termodinamica, ha dichiarato alla fine del 2019 la scelta di volersi sciogliere. Il settore del solare termodinamico muore prima di nascere.
Attualmente l’Italia è riuscita ad installare 5,35 megawatt rispetto a tutti i progetti avviati e già autorizzati ma mai realizzati, per centinaia di megawatt. Il motivo di questo misero risultato è da riferire a una storia che inizia molti anni fa: il decreto “Rubbia”, che nel 2008 delineò le forme di incentivi e le regole alla base per la nascita del settore in Italia. Seguito poi dal decreto ministeriale del 23 giugno 2016, che ha previsto la realizzazione di 20 megawatt da fonte solare termodinamica, di cui l’80% sarebbero dovuti sorgere tra Trapani e Palermo. Per quanto riguarda gli impianti di maggiore taglio, sono solo due quelli autorizzati e sono in Sicilia, per un totale di 53,5 megawatt.
Ciò che ha fermato la crescita in innovazione e in energia sostenibile è la difficoltà che le aziende riscontrano per l’ottenimento delle autorizzazioni. Queste sono giunte a rilento, e nella maggior parte dei casi sono finite paralizzate. I tempi autorizzativi erano in media di oltre i 60 mesi, quindi più di 5 anni!
Un esempio. Per l’impianto a Gela venne chiesta l’autorizzazione nel 2009, ma la concessione avvenne nel 2016. Il sistema pubblico si è dimostrato lento rispetto alla Ricerca e alle Imprese. Dopo 8 anni dal primo decreto sono state sbloccate le autorizzazioni, ma non aggiornate le incentivazioni. Chi investe si trova a dover supportare un costo maggiorato tra il 20 e il 30%. Gli investimenti sono difficili da sorreggere, dati gli importanti costi e le normative regionali, contraddittorie anche da regione a regione.
In altri casi, la sindrome Nimby ha fatto terra bruciata su ogni qualsiasi genere di aspirazione. Sono stati investiti 300 milioni di euro per la costruzione di 14 centrali, e tutto resta bloccato. La paura che possano devastare il territorio porta alcune aziende come la Reflex a spostarsi all’estero, dove il made in Italy è più apprezzato. Il motivo è che in Italia viene spesso definita “una bomba ecologico-ambientale” e si pensa che la tecnologia solare potrebbe finire per riscaldare l’aria. La Sardegna è la regione dove più si afferma la sfiducia verso gli impianti.
Mentre il Governo continua a sostenere la necessità di un sistema energetico decarbonizzato, una filiera italiana sta chiudendo, portando con sé una con grave perdita di know- how e di posti di lavoro. Quest’ultimo è un punto importante. Nei progetti per la realizzazione degli impianti, la cui durata media sarebbe stata di 2 anni, si prevedevano 150 posti di lavoro diretti e indiretti, mentre per l’operatività della stessa almeno 30 operai su 3 turni. Era una possibilità di crescita economica, come dichiarato da Angelantoni, imprenditore e presidente dell’Anest.
Si sente spesso parlare di Transizione energetica, lo stesso Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima prevede il raggiungimento del phase out dal carbone nel breve termine, ma come speriamo di raggiungerli con simili difficoltà?