È con grande tristezza che ho saputo della morte del mio amico ed ex partner Ulay. Era un artista e un essere umano eccezionale, ci mancherà profondamente. In questo giorno, è di conforto sapere che la sua arte e la sua eredità continueranno a vivere per sempre.
Sono queste le parole che Marina Abramović, artista contemporanea, ha scritto su Facebook il 2 marzo subito dopo la morte del suo compagno di vita e d’arte, Ulay.
Chi era Ulay?
Ogni volta che questo artista viene citato, si pensa d’impulso alla sua relazione con Marina, nonostante, agli inizi del loro rapporto affettivo, egli fosse già attivo da alcuni anni.
Nato nel 1943 in Germania, a Sollingen, Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, era figlio di un gerarca nazista. Rimase presto orfano e, come spesso accade, visse in maniera conflittuale le proprie origini. Non voleva sottostare a ciò che gli veniva imposto, tanto da arrivare alla rinuncia del proprio nome e della propria nazionalità.
È un ribelle, uno spirito libero, e come tale non si lega a nessun luogo. Viaggia molto e negli anni Sessanta si trasferisce ad Amsterdam perché è attratto da un movimento artistico: il Provo, d’ispirazione anarchica.
Abbandona i propri studi universitari per dedicarsi totalmente alla fotografia analogica. Intraprende una ricerca profonda su due problemi sempre presenti ed attuali: l’identità e il corpo. Documenta così la cultura e la vita di travestiti e di trans-gender attraverso scatti, aforismi e performance live come nella serie Fototot, risalente al 1976.
Quando l’arte si mescola all’amore
Lo stesso anno, Ulay incontra colei che rimarrà nella sua anima per sempre. Lei è Marina Abramović, ed entrambi si trovano alla Galleria de Appel di Amsterdam. È il 30 novembre, la data di nascita di ambedue gli artisti. Tra loro nasce subito intesa: oltre a esserci l’arte, c’è anche tanta chimica.
Vivono per tre anni insieme, lavorando e viaggiando su un furgoncino. Danno vita a tante opere e progetti, tra i quali la serie Relation Works. Si tratta di una forma estrema di body art, arte che coinvolge all’estremo il corpo umano e che li porta ad esplorare i limiti della resistenza fisica e psichica. Nascono opere che hanno segnato la storia della Performance Art come Imponderabilia, realizzata nel 1977 a Bologna presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna.
In essa, Ulay e Marina sono nudi, uno di fronte all’altro, all’ingresso del museo. Il pubblico è così costretto ad entrare nel museo oltrepassando i corpi dei due artisti. Lo spazio è strettissimo, cosicché i visitatori devono scegliere per forza se rivolgersi verso l’uomo o la donna. La performance avrebbe dovuto durare tre ore, ma viene interrotta a metà da due agenti di polizia che la ritengono oscena.
L’idea dei due artisti è quella di focalizzarsi sul pubblico, sulla sua capacità decisionale, sulle sue reazioni. In questo processo la nudità diventa un aspetto secondario, nonostante sia essa stessa il soggetto fondamentale.
La nudità è il mostrarsi così come si è, nelle proprie fragilità. Proprio per questo motivo, da sempre causa imbarazzo; in questo progetto, tuttavia, non sono le persone nude ad essere a disagio, quanto coloro che portano i vestiti.
L’ultima performance
Anche le storie più belle hanno un fine e, dopo 12 anni, Marina ed Ulay decidono di lasciarsi. Per sancire la conclusione di un rapporto così forte, utilizzano ancora una volta la loro arte.
L’ultima performance è The Lovers. In novanta giorni, i due percorrono a piedi la Grande Muraglia Cinese partendo dai capi opposti; perché è così che metaforicamente dovrebbe essere il vero amore, un camminare l’uno verso l’altro. Alla fine, si incontreranno al centro per dirsi addio.
Nonostante le loro performance migliorassero, infatti, la loro vita privata peggiorava. Avevano interessi sempre più diversi. Ulay voleva godersi la vita, beveva e faceva uso di droghe, fino al punto di diventare infedele e tradire la sua compagna.
Ma i due si ritrovano a sorpresa nel 2010 quando Ulay si presenta al MoMa dove è in corso lo spettacolo The Artist is Present, in cui i visitatori vengono invitati a sedersi di fronte all’artista serba. Ulay si siede di fronte a Marina e guarda fisso negli occhi la donna amata. I due si scrutano, sorridono e piangono ma senza abbassare mai lo sguardo. Al termine di un lunghissimo minuto non si dicono nulla ma si stringono le mani, scatenando l’applauso dei presenti.
Abbracciare totalmente la propria vita
Nel 2009 Ulay si trasferisce a Lubiana. Gli viene diagnosticato un cancro. Si aggrappa ancora di più alla vita e decide di partire con una troupe per visitare i luoghi più importanti della sua vita, incontrando compagni ed amici per un ultimo addio.
Ulay tratta la malattia come il più grande e più importante progetto della sua vita, un’occasione per interrogarsi su ogni aspetto di essa e per raccontare la propria carriera attraverso interviste e video di archivio. Il tutto diventa un documentario intitolato Project Cancer diretto da Damjan Kozole, uscito nel 2013.
Una leggenda popolare cinese racconta che ogni persona porta, fin dalla nascita, un invisibile filo rosso legato al mignolo della mano sinistra che lo lega alla propria anima gemella, alla propria amata, alla propria persona. Chissà come starà Marina in questi giorni.
Ci si può riprendere da un amore vissuto così intensamente?
Una cosa è certa: con la morte di Ulay, l’arte contemporanea ha perso un grandissimo artista.