Ogni libro è un medium, nel senso più pieno dell’etimologia latina. Un mezzo per comunicare al prossimo, raccontarsi, divulgare, scavare all’interno della propria fantasia o interiorità, mettendosi a volte al servizio di un pubblico di lettori. Una sorta di elemento intermedio, di piena connessione tra lo scrittore e un elemento terzo, che può appartenergli (nel caso in cui il libro sia una rappresentazione del proprio vissuto) o essere semplicemente altro da sé.
Il libro assume dunque il ruolo di fautore del dialogo, reale o metaforico, tra scrittore e mondo interno ed esterno.
Ed è proprio un pieno dialogo quello che prende forma tra le pagine di Scavare, romanzo d’esordio del giovane Giovanni Bitetto, pubblicato per Italosvevo Editore. Un dialogo che muove le fila tra il protagonista e l’amico deceduto del protagonista stesso, entrambi vasi d’argilla plasmati dal tornio dal loro rapporto.
Scavare è un racconto fatto in prima persona dal narratore, pienamente rivolto all’amico con cui ha vissuto una buona fetta della propria giovinezza. Non sussistono nomi, specificazioni. I ricordi prendono vita, ma sono censurati (forse anche per nascondere il proprio vissuto personale ai biografi che il protagonista immagina quasi ossessivamente interessati alla vita dei due). Sebbene i due personaggi abbiano una connotazione intensa e cesellata, il lettore ripercorre il loro intimo connubio senza sapere precisamente chi siano i due protagonisti.
Centrale è la narrazione di una peculiare e altalenante amicizia, che nasce dalle difficoltà delle scuole medie e si arricchisce con la crescita. Un dialogo a senso unico, a cui l’amico ormai deceduto può rispondere con un mero silenzio che amplifica le domande, i dubbi, il senso di eventuale rimorso. Un racconto a una sola voce, in cui il narratore assume un tono forte, quasi una presa di potere desiderata e necessaria per l’orgoglio del narratore. Una voce superba, che non si limita semplicemente a esporre il proprio punto di vista sull’esperienza amicale vissuta in maniera ambivalente, ma tende quasi a farsi odiare, a sfruttare l’unidirezionalità per non creare empatia con il lettore. Una voce che soffoca, che non lascia respirare a causa della sua pesantezza.
“In una città di provincia in cui l’apatia appesantisce il pensiero di ciascuno, fiacca ogni volontà, ci sono tre svaghi possibili: la chiesa, la televisione, la droga. La prima l’abbiamo sempre vista come una pratica barocca, assorbita nei secoli dal genoma della cittadinanza: la domenica è il giorno in cui sfilare, ci si presenta come greggi profumate nella casa del Signore, lo sguardo coperto dagli occhiali da sole, per impedire alla divinità di penetrare il peccato dell’indifferenza, si trangugia l’ostia, si ripetono le parole assonnate dei canti e delle preghiere, poi si esce nella calura, a frequentare i bar per un giorno animati da una vivacità insperata. La seconda è consuetudine onnipresente, come il divano sfondato che presiede il salotto di ogni appartamento: si irradia come un prisma, offrendoci modelli di vita che avremmo voluto – dovuto – emulare, verità che sembravano calare dall’alto e che assorbivamo con metodica inerzia. La terza ci è apparsa da subito la più allettante, e anche la più etica.”
Sarà dunque un ego tronfio a raccontarci il lungo e impervio crocevia di questa amicizia tutta al maschile: un rapporto prima limitato, poi tanto intenso da diventare fusione e infine conflitto. Una sorta di invidia reciproca tra due ragazzi partiti inizialmente dalla Puglia, terra di speranze circoscritte e di ambizioni sterili. Tutto ha origine infatti nel contesto stretto di provincia, un luogo dove fare gruppo e in cui spesso si è alla ricerca dell’eccesso per smorzare la monotonia e la noia.
L’amicizia si sviluppa qui tra i due giovani, di cui uno condannato fin dalla nascita a portare con sé una malattia rara che lo segnerà per tutta la vita. Estrofia vescicale, la sua definizione tecnica; un danno congenito che si tramuterà in dolore fisico, operazioni e cicatrici.
Un’amicizia che si propaga dunque dalla terra natale alla terra d’esilio, Bologna, piena di novità, di spazio per le proprie mire, luogo in cui rifuggire da tutti gli stereotipi e i vincoli che la provincia trascina con sé.
Sarà proprio nella città scelta come meta universitaria che i due prenderanno strade diverse e inizieranno a scoprire le proprie velleità: da un lato avremo dunque il ritratto di un filosofo marxista, innamorato casualmente della materia, mentre dall’altro quello di uno scrittore nichilista che trova varie giustificazioni per spiegare il suo desiderio di scrivere.
“Mi hai sempre raccontato di quanto fosse stato casuale il tuo incontro con la filosofia: leggevi i libri di tuo padre nelle notti in cui faticavi a smaltire la cocaina. Il cuore accumulava battiti, la mente si perdeva in ragionamenti astrusi, fra i viluppi di pensieri si stagliava il materialismo storico; ben presto i concetti furono gli ospiti delle nostre serate, animarono le discussioni.”
L’evoluzione del rapporto porta con sé anche gli effetti della crescita dei due personaggi; accade così che la vita li metta a dura prova a causa di malattie dei propri familiari, di assenze, di lutti. In uno scambio vicendevole di mani sulle spalle e di reazione alle morti, si vede piano piano l’antologia degli affetti decimarsi pur lasciando piena traccia. I padri e le madri, di cui a volte si parla in modo impersonale, sembrano quasi assumere il valore archetipico, una sorta di figura decontestualizzata dalla specifica famiglia. Ruoli però a volte esageratamente incancreniti all’interno di famiglie scalcinate che per tutto il romanzo sembrano la rappresentazione del disagio più totale, descritto a volte con un’eccessiva e sgradevole attenzione per gli organi genitali maschili.
Per il protagonista-narratore, l’amico filosofo appare dunque come il fulcro ravvivante la propria esistenza: un elemento motivazionale, la miccia delle proprie scelte, la fucina delle proprie ideologie, la genesi di ogni propria scoperta. Il tutto fino alla rottura più completa e inevitabile che purtroppo la morte porta con sé. Proprio a seguito della tumulazione, l’io ipetrofico del narratore ha bisogno di ripercorrere e chiarire tutto il percorso di questa bislacca amicizia, quasi con un intento di distruzione dell’altro.
“La mia maschera di banalità – il bohémien a cui bastava la trasgressione di una serata di alcol, droga e truci propositi – stava andando in pezzi? Per anni aveva funzionato: in provincia il personaggio interpretato poteva essere rudimentale. Qui non era sufficiente, bisognava costruirsi un’immagine sofisticata, identificarsi completamente con le proiezioni, per far sì che la recita si ravvivasse nella farsa.”
Non abbiamo lunghe descrizioni o capitoli ampi. Tutto dovrebbe perciò snodarsi negli anni in maniera fluida e raccontarci cosa accade alla relazione tra i due giovani durante l’università. Da giovani lettori con qualche aspetto in comune con i due protagonisti, dovremmo sentirci pienamente coinvolti nelle vicende. Eppure così non accade.
Il libro non si trasforma in medium perfetto per il lettore, ma diventa un muro pesante con cui dover fare i conti a fatica. Il romanzo rischia così di apparire un’opera finta, costruita stilisticamente a tavolino in maniera sofisticata e quasi farsesca per superare la banalità di un rapporto amicale. È proprio lo stile (con termini ed espressioni come “sdilinquirmi“, “protervia“, “rabberciata“, “elzeviri“, “una scimmia berciante“, “abborracciati“, “il ritmico peana della macchina“, “il pastrano igienizzato“, “un mantice che insuffla la vita“, solo per citarne alcuni) che blocca totalmente qualsiasi istinto empatico e di sincero interesse per la storia da parte del lettore.
Persino quello che sembra essere un tentativo di riflessione sul ruolo dello scrittore e sul valore del filosofo risulta mancato e indotto in maniera poco naturale.
Infine, dopo pagine di dissertazioni legate ai membri maschili e agli orifizi anali, si ha quasi il dubbio che tutto sia stato furbescamente costruito per stimolare nel lettore un totale allontanamento dal narratore e dal suo solipsismo.
Giovanni Bitetto, Scavare, ItaloSvevo, 2019