I Lakers della stagione NBA 2019/2020 trasudano uno spassionato equilibrio. È una squadra meravigliosamente non banale. Hanno scardinato molti paletti e hanno offerto lo spettacolo, a chi lo voglia vedere, di una democrazia reale che – ridiamoci su – può dar lezioni all’Occidente. Forzando un po’ lo sguardo, insomma, i Lakers di quest’anno sono un campione antropologico da non prendere con superficialità, ma con curiosa aspettativa.
Senza dilungarci sull’evidente coappartenenza funzionale di sistemi sportivo-agonistici, micro-società ideali e originarie, e sistemi politico-sociali, guardiamo direttamente alle strutture astratte che regolano il comportamento “politico” della micro-società del basket contemporaneo.
Chi ha guardato il basket americano negli ultimi anni sa che il gioco è profondamente cambiato dai tempi di Michael Jordan, e proprio a causa di MJ. Forse ogni grande squadra degli ultimi anni si è fatta forte di giocatori fortemente influenzati da Jordan, soprattutto quello più maturo dei tiri da 3. Il gioco impostato da molti talenti ed MVP (Most Valuable Player, l’equivalente cestistico del Pallone D’oro) negli anni 2000 si è concentrato prevalentemente sul tiro da lontano e sulla sparizione dei colossi sotto canestro. I casi più emblematici sono i Rockets di Harden e gli Warriors di Curry. Fluidi, esplosivi, possessi brevi e passaggi rapidi.
Questa è la storia contemporanea di un basket cinematografico. L’iconografia del tiro da tre, il protagonismo dei cecchini da metà campo e i perni solitari delle franchigie. Un’NBA fatta di protagonisti, come una Hollywood costruita sui divi. Giannis è l’equivalente del ridondante esotismo di Timothée Chalamet, Kawhi Leonard ha lo stesso “e che je voi dì” di Joaquin Phoenix, Paul George piace a tutti, come Tom Hanks, e Westbrook è esplosivo come Di Caprio.
Delle squadre, spesso, non se ne ricorda nessuno. In Italia, con l’egemonia culturale del calcio, siamo abituati al riciclo senza pena dei mercenari, ma questo fenomeno in NBA ha tardato ad arrivare, o forse è stato solo più moderato. L’estate scorsa, tuttavia, abbiamo assistito ad un riassetto della rosa dei team quanto meno dissociante.
Da questo, però, da questa estrema schizofrenia, da questo scambismo generale, da questo atomismo con atomi più grossi di altri, è emersa una struttura inaspettata, un brivido di fantasia. I succitati Lakers hanno rimesso in cantina (o comunque reinterpretato) gli schemi pret-à-porter del tiro da tre, hanno virtuosamente sconfessato ogni apparentemente inevitabile protagonismo ed hanno portato agli occhi dell’osservatore filosofico delle stupende occasioni morali: relazione, equilibrio, collaborazione e imprevisto.
I Lakers sono un buon pasto completo: primo, secondo e terzo tempo leggeri, senza intoppi. Ma ovviamente, lo wow-factor arriva al dessert: lo scherzo della natura Lebron James e lo scandaloso monociglio Anthony Davis. E la metafora è calzante. Davis stesso ha descritto il gioco della coppia come «banana e burro d’arachidi» – qualcosa che, con più rispettabilità culinaria, diremmo assomigliare al “cacio sui maccheroni”.
La coppia ha innanzitutto riscritto le leggi dell’idolatria: Lebron ha fatto un passo indietro. È il giocatore più forte del secolo, uno dei 4/5 migliori di sempre, ma ha saputo ridurre il suo gradiente di fantasticità per miscelarsi con un ragazzino bravo, sì, ma che non sempre ha soddisfatto le aspettative. Ed è così che il ragazzino diventa il prossimo papabile MVP, almeno a furor di popolo, e la leggenda diventa il divino, il policentrico, l’inafferrabile. Lebron ha fatto di tutto affinché Davis atterrasse a Los Angeles. Questo perché ha intuito che la molecola ha un vantaggio sulla mole, che i maccheroni stanno meglio col cacio.
Lebron si è scollato dallo specchio di Narciso e ha deciso che nei libri di storia ci sarebbe voluto entrare non solo facendo compagnia a Kareem e Micheal, tra i migliori marcatori, ma anche facendo sentire il fiato sul collo ai migliori assistmen della storia. Davis, lo spilungone, corre come un demonio e fa il lavoro del giovane Lebron: segna. Il monociglio si prende i marcatori dello scherzo della natura, asseconda la straordinaria intelligenza tecnica di questo e, con garbo, viene ricompensato con delle inevitabili occasione da canestro, che però marca sempre con un tocco di magia. E in difesa, non c’è nemmeno da dirlo, i due vendono sfiducia a buon mercato a tutte le squadre della lega.
Ma la meraviglia di questi Lakers sta nel fatto che l’armonia non si consuma tra i due capibranco. Un’altra coppia d’azione imprescindibile è persino apparentemente ridicola: il solito Lebron e… Caruso. Per chi non segue l’NBA, Alex Caruso è un giocatore che non semplicemente non ha mai fatto parlare di se’, ma è addirittura mediocre. L’aspetto, di certo, lo conferma e non lo aiuta: pochi capelli, pallidissimo, parzialmente sbarbato e poco prestante. E a fianco a lui, l’Ercole di Akron. Eppure, secondo un recente rating offensivo basato sul rapporto tra possesso palla e punti segnati, la coppia Lebron-Caruso guadagna il primo posto in NBA.
I giocatori si adattano alle meccaniche comuni, non costruiscono delle strutture imperniate sui singoli talenti.
Il genio della squadra di Frank Vogel sta nell’organizzazione democratica, dal basso, in cui ognuno dà ciò che ha, a prescindere dai presupposti e dalle graduatorie interne al team, e d’un’unica volontà generale la macchina gira armoniosamente secondo codici ogni volta nuovi. Forse la figura più evidente di questo sviluppo orizzontale degli schemi di gioco si ha con questo meraviglioso Lebron-assistman, ma la squadra vive di una collaborazione costante tra panchina e titolari, dell’imprevisto emergere dei talenti nascosti dei singoli nell’ordine della miscela, della rinuncia dell’individualismo a favore della relazione.
La coppia Davis-Lebron, che resta pur sempre l’evidente fiore all’occhiello della squadra, finisce così per poter essere annoverata tra le grandi coppie. La migliore grande coppia Lebron-incluso (sopra Lebron-Irving e Lebron-Wade) ed una delle aspiranti podiste nella classifica di sempre (MJ-Pippen, Kobe-Shaq, Magic-Kareem, etc.). Quello che una squadra di podisti egoisti non può raggiungere (gli ex-Warriors di Curry, Thompson, Durant, etc.), lo consegue un’armoniosa tela relazionale, composta ovviamente di alti e bassi, di Lebron e Caruso, ma vincente nel superamento della spettacolarità a tutti i costi e dell’americanissimo ideale del self-made man. E quanto è bello un Lebron che passa la palla, di fronte ad un Harden che non si sogna nemmeno di difendere!
NBA: “La miglior coppia della lega? Lebron James e Alex Caruso”, Skysport, 27/02/2020
Immagine 1: personale