In tempi recenti, la migrazione transfrontaliera ha catturato la nostra attenzione, facendoci chiedere cosa spingesse molte persone a spostarsi e cosa potesse essere di aiuto in tali situazioni.
E mentre un flusso importante di donne, uomini e bambini si sposta, molte persone migrano anche all’interno dei propri paesi. Costoro si muovono per molte ragioni, che possono essere di natura economica, sociale, politica o ambientale. Quest’ultima ragione, e più nello specifico il cambiamento climatico, ha dato inizio ad uno dei più importanti fenomeni migratori degli ultimi tempi: quello della migrazione climatica.
Un fenomeno che porta con sé non poche problematicità. Queste sono riscontrabili nel report pubblicato dalla Banca Mondiale, il più completo studio avente ad oggetto il nesso e l’impatto di fenomeni legati al cambiamento climatico. Il report, inoltre, focalizza l’attenzione sui flussi migratori interni e gli sviluppi nelle tre aree maggiormente colpite, quali l’Africa Sub-Sahariana, l’Asia e l’America Latina.
Sulla base delle supposizioni della World Bank Group, entro il 2050, in uno scenario “pessimistico”, il numero di migranti climatici potrebbe raggiungere oltre i 143 milioni; e negli anni successivi aumentare drasticamente. Spostamenti comandati dalla necessità di cercare luoghi che permettano la sopravvivenza. Dato che la migrazione climatica è dovuta non solo all’innalzamento delle temperature, ma anche a causa della crescita del livello dei mari e dell’incremento di eventi atmosferici estremi e dagli impatti devastanti. Tuttavia, questi spostamenti avranno come effetto quelli di pesare su aree già compresse e vulnerabili a loro volta.
La situazione è delicata. Solo di recente gli esperti hanno effettivamente iniziato a riconoscere un nesso tra ambiente e migrazione, anche se teoricamente le prime dichiarazioni dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni risalgono al 2008. Il primo studio era incentrato sulla presenza di una correlazione tra diminuzione delle terre produttive e movimenti migratori nel Corno d’Africa.
Nonostante il recente riconoscimento, il termine “rifugiato ambientale” esisterebbe formalmente già da svariati anni, inserito nel 1997 nel Glossario di Statistiche Ambientali, in riferimento a “una persona sfollata per cause ambientali, in particolare degrado ambientale”.
«I paesi più vulnerabili hanno meno capacità di proteggersi. Sono anche quelli che meno contribuiscono alle emissioni globali di gas serra. In assenza di provvedimenti, saranno loro a pagare un alto prezzo per le azioni altrui».
Kofi Annan (2007)
Secondo il Global Report on Internal Displacement 2018, dei 30.6 milioni di spostamenti, solo il 39% era legato i conflitti, mentre il 60% a disastri naturali (18 milioni da disastri ambientali legati al clima).
E’ un problema reale, quello del clima. Si pensi soltanto alle stime fatte per il 2099. Si stima infatti un innalzamento della temperatura media globale tra gli 1,8 C° e i 4 C° rispetto ai livelli pre-industriali. Le conseguenze saranno devastanti, dall’aumento della siccità, ai disastri climatici, all’innalzamento del livello del mare. Si pensi soltanto al fatto che è stimato un innalzamento tra gli 8 e i 13 centimetri entro il 2030, e tra i 17 e i 20 centimetri entro il 2050.
La quantità di persone che lascerà il proprio luogo di origine per circostanze ambientali aumenterà inevitabilmente. Il fenomeno sarà influenzato non solo da risorse economiche, ma anche e soprattutto da quelle politiche. Ovvero, le risposte che verranno offerte dai governi locali e dal diritto internazionale.
Quest’ultima questione è tra le più delicate. Infatti è inesatto parlare di “rifugiato ambientale”. La Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo relativo allo status di rifugiato del 1967 limitano la condizione di rifugiato ai soli minacciati nel proprio paese da persecuzioni legate all’etnia, alla religione, alle opinioni politiche, alla nazionalità. Non contemplano però cause di natura ambientale. Inoltre, i rifugiati sono intesi come migranti transfrontalieri, ma non è certo che chi lascerà le proprie terre per questioni ambientali superi i confini del proprio paese.
Quindi i rifugiati climatici esistono?
Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, approvato nel dicembre del 2018 dall’Assemblea dell’ONU chiede pertanto la realizzazione di piani atti a prevenire la migrazione climatica e aiutare i soggetti in pericolo. Perché in questo status di incertezza legale, economica e ambientale, è possibile una soluzione. Questa viene definita nello stesso report della World Banck Group. Può risultare banale, ma è veramente l’unica soluzione tra le nostre mani: diminuire le emissioni. Una diminuzione delle emissioni che rispetti i piani definiti a livello internazionale, potrebbe frenare la migrazione ambientale fino all’80%.