La macchina più potente che la modernità ci ha dato non è stata la polvere da sparo, che ci ha condannato alla minaccia perpetua e al massacro a distanza. Non è stata nemmeno il motore, che ci ha sì portato da una parte all’altra del mondo, ma spesso non ci siamo accorti nemmeno per dove passavamo. La grande invenzione della modernità è stata la macchina della memoria, il dispositivo della reminiscenza e delle idee passate. La macchina fotografica.
Quantità e qualità delle immagini
Quando John Berger affermava che «le immagini sono più precise e ricche della letteratura» si riferiva al modo in cui queste siano in grado di formare una coscienza, riportarla alla sua storia e prepararla al futuro. Oggi, come è stato detto da molti e in molti modi diversi, siamo immersi in una società delle immagini. La pubblicità, i costumi, il divismo…
Possiamo arrivare a parlare anche di un contemporaneo più prossimo, di una situazione forse meno familiare ma decisamente più attuale: la quantità delle immagini.
Risparmiamoci un’inutile classificazione dei mille volti della nostra cultura visiva (le pubblicità customizzate, Instagram, gli screenshot, le telecamere intelligenti, i porno online, etc.). Potremmo ricondurre tutto allo spaventoso idolo dei Big Data. La varietà, la velocità, la versatilità, ma soprattutto il volume estremo, incontenibile e massivo di dati digitali come matrice della nostra industria, radice della nostra cultura e precipitato emblematico del nostro “progresso”. Dati, va da se’, che sono quasi sempre immagini.
Ma l’occhio, quando si parla di quantità, va subito all’altro membro della coppia. Che ne è della qualità?
Ci si domanda allora se forse l’eccesso non sia bulimia. E se forse quella macchina fotografica, quella macchina della memoria, non abbia smesso di essere tale, declinandosi in un manierismo così ipertrofico e accelerato da aver perso il contatto con quel nobile, implicito e accettabile scopo morale. Denaturandosi l’immagine, diventando la Gioconda e le foto dai campi di guerra qualcosa di sempre già visto e mai stupefacente, forse si è persa la qualità mnemonica e profetica dell’immagine (in altre parole, la sua essenza temporale). Forse si è normalizzata la sua terribile natura di mistero sul piano del flusso continuo, della mercificazione, della condivisione globale e della dispersione universale.
L’abicì della guerra
Bertolt Brecht visse in una società molto diversa dalla nostra, in cui le immagini conservavano ancora una capacità espressiva ed ispirante. Nel 1938 cominciò a ritagliare dai giornali le immagini della dittatura e dello sterminio nazifascista. Raccolse così lungo tutto il periodo della Seconda Guerra Mondiale gli aspetti più rappresentativi degli orrori e delle contraddizioni di questa “follia dell’umanità”.
Alle fotografie, rigorosamente estratte con la conservazione della didascalia, venne associata una serie di componimenti poetici brevi e lapidari. Il tutto fu pubblicato nel 1955 sotto il nome pretenzioso ma meritato di L’abicì della guerra.
In quest’opera la guerra prende le forme di un conflitto dei pochissimi contro i molti. Si tratta pur sempre di una lotta di classe, in cui gli operai, pur essendo di norma quelli che rimangono sotto le macerie dei bombardamenti, sono gli stessi a costruire i carrarmati e i proiettili che li squarciano. I molti sono coloro che per vivere, per campare, si lasciano ammazzare dai loro stessi cannoni, usati chi quelle armi si è dato il diritto di farle risuonare come un Dio. E a chi puntano, poi, gli sguardi di terrore dei soldati, quando imbracciano un fucile montato dai loro fratelli per ammazzare i fratelli di un’altra Europa? Guardano il nemico o guardano il capitano che li sorveglia?
«Vinti da Hitler e dalle nostre autorità», le masse muoiono sotto le bombe sganciate per paura dai soldati che, se avessero un decimo delle forze per combattere la loro guerra, si unirebbero al popolo affamato contro i veri assassini. Rommel, Hitler, Goebbels, Goring, ma anche Churchill, Roosevelt, Pétain… I traditori della patria, gli invasori della pura Africa, gli affamatori di Parigi e i “liberatori” di Roma.
Secondo Brecht, i nemici non sono un fantasma multiforme e disorganico. Hanno «un nome, una faccia e un recapito». La candela della guerra si è accesa per i loro vizi e si è consumata ai loro tempi. Nessuno, in vero, nessuno tra le persone vere, può definirsi un “vincitore”. A tormentare la penna di Brecht è poi l’amara consapevolezza di una possibile alternativa mai realizzata.
Conoscendovi pensavo, e lo penso ancora,
e non sono di quelli disposti a un cieco elogio:
siete sprecati per conquistare il mondo alla cieca,
per asservire gli altri o stare sotto il giogo.
La chiara verità, di cui il mondo degli ultimi trenta anni sembra però voler far mistero, è che le grandi guerre del Novecento ci hanno regalato l’ingrato pegno di una barbarie inconsumabile, sacra perché irrisolvibile. Lo sterminio che l’umanità ha subito per volontà di un pugno di persone non ha lanciato vincitori. Se non, ovviamente, nelle tasche di pochi e sulle seggiole di pochissimi.
Questo, secondo Brecht e tutti noi, è l’ABC della guerra. Che gli scatti di un mondo rubato alla nostra umanità sono la nostra grammatica, le nostre tabelline, il nostro formulario per ricordarci dell’invincibile capacità dei molti di liberarsi dei pochi. Colpire le facce di quegli insostenibili guardiani del loro potere è la lezione e il dovere di ogni rassegnato.
Questa storia ci viene raccontata dalle immagini degli straccioni sul lungosenna, delle teste dei soldati mutilati e delle masse disperate tra macerie e rottami. Le immagini di paura, pena e pietà, prima degli scatti di riso e follia, sono il documento più efficace che la modernità ci ha dato per guardare le nostre ferite, ricucirle e non svendere la propria pelle a chi vi sparge distruzione.
Bertolt Brecht, L’abicì della guerra, Einaudi, Torino, 2015.