Il travestimento nella sua poliedricità artistica

“Molte volte non mi riconosco, cosa che accade spesso a coloro che si conoscono. Assisto allo spettacolo di me stesso nei vari travestimenti in cui vivo”.
Fernando Pessoa

Eyes Wide Shut

Il travestimento è un’arte. È la capacità di donarsi una nuova identità, che sia corporea, esteriore, in modo da non denaturare un’essenza già formata.  Ma è anche la forza di mettere in discussione la propria immagine quotidiana verso la sperimentazione, così da creare una maschera, un filtro, che scinda la realtà vissuta da quella immaginaria o, semplicemente, appartenente a qualcun altro.

Per questo il travestimento intreccia i concetti di identità e di mutamento, di staticità e dinamismo, strettamente uniti dalla maschera, come elemento rituale e simbolico. Uno strumento che si concede alla performance, alla rappresentazione teatrale in chiave pirandelliana, dove è la realtà a cercare un’evasione dai propri limiti.

Nessun sogno è mai solamente un sogno. Così afferma Tom Cruise nelle vesti del Dottor Bill Harford in Eyes Wide Shut, di Stanley Kubrick. C’è qualcosa, oltre l’atmosfera onirica della performance, che riallaccia lo spettatore alla realtà. È la consapevolezza dell’esistenza di una creatura, viva e vera, dietro la maschera. Un uomo fatto di sangue e sogni, che non può librarsi in una realtà altra perché i suoi piedi sono fermi a terra.

Cindy Sherman, Untitled Still Films

In questo modo l’arte riconosce i propri limiti e li sfrutta come potenziale creativo. Gli artisti uniscono l’identità del chi sono a quella di chi vorrei essere, e scatta la magia. I riferimenti sono molteplici, dal passato dell’arte figurativa, al mondo cinematografico, fino alla scena musicale. Non c’è un limite creativo, se non quello della corporeità umana.

Ma partiamo dall’artista americana Cindy Sherman, portavoce dell’arte del travestimento. Lei sceglie di esporre il proprio corpo, rivoluzionandolo come recita il critico d’arte Achille Bonito Oliva: il mondo è un palcoscenico, l’essere una creazione teatrale. Così la Sherman, nella sua raccolta di opere Untitled Still Filmsrievoca le figure femminili del cinema americano anni ’50-’60.

La sua scelta artistica conduce però a un’esigenza comunicativa molto forte: offrire la rappresentazione mediatica della donna in quegli anni e il canone stereotipico in cui ricade. Le vesti delle attrici noir, dunque, in una narrazione sotterranea più dettagliata e incisiva. Con il chiaro intento di schiarirsi la voce nel panorama fotografico contemporaneo. Perché anche se la raccolta è del 1978, è sempre attuale.

“Sono stata spinta a chiedermi: come si forma, si esprime, si apprezza e si soppesa l’identità come donna, come donna transessuale, donna latina, donna di origine indigena e come artista? È quasi impossibile arrivare a qualsiasi risposta definita, ma per me questo processo di esplorazione è squisitamente vivificante”.

Un’altra artista che racconta il corpo, interagente fisicamente e psicologicamente con lo spazio, è Martine Gutierrez. La performer transgender, originaria del Guatemala, è stata la perla della Biennale di Venezia 2019 con la sua raccolta fotografica Indigenous Woman. Una donna indigena, dunque, una creatura che trasuda le origini etniche e storiche dell’artista. Un’anima che parla a tutti coloro che di questo mondo non sanno nulla.

Adrian Dascal, Travestimento Indigeno

La comunicazione è visiva e partecipativa, perché il colore, l’eccesso e il tocco ironico di Martine invitano lo spettatore ad abbracciare una realtà intrigante, accattivante. Lo spaventa? Forse. Ma non si può fare a meno di osservarla, con la consapevolezza, più o meno esperita, che dietro tutto il trucco e gli accessori dei travestimenti di Martine ci sia un’indagine.

Uno studio sulla fluidità di genere ed etnia, che attraversa anche le opere di Yasumasa Morimura. L’artista giapponese gioca con il proprio sesso, donandogli una natura multiforme in omaggio all’arte contemporanea. Un giorno è Frida, un giorno la Gioconda, un altro Einstein, un altro ancora Hitler. È quello che vuole essere quando vuole esserlo. È autoritratto che rinuncia alla sterile riproduzione fedele del viso, ma coinvolge il travestimento.

Questa è un’attività che va oltre il narcisismo, oltre la frivolezza estetica, poiché richiede pazienza, pratica e affinamento delle proprie capacità creative. Il viso è la tela, che l’artista può imbrattare e deformare a suo piacimento, verso l’emulazione o la mimica o verso l’affermazione identitaria. Può anche accadere che queste due realtà siano tra loro connesse.

Cosplay

Ma una cosa è certa. Anche ciò che fa crescere le sue radici nella sfera dell’emulazione è arte. E qui entrano in gioco i cosplay, performer che scelgono il travestimento per illustrare un personaggio del mondo dei fumetti, dei videogiochi, del cinema o della serialità. Il cosplayer studia minuziosamente la fattura del costume e il make up, devolvendo gran parte del suo tempo alla passione e con essa, all’arte.

Così l’arte diventa un investimento, non economico, ma emotivo. E non c’è nulla di più redditizio dell’appagamento personale, dato da un corpo vivo e non solo sterilmente vestito. Un corpo che può offrire di più di un’architettura biologica, perché diventa strumento malleabile di creazione.

Paradossalmente si serve di un travestimento, ma questo lo rende ancora più nudo, più esposto. Perché si dota di tutte quelle peculiarità che vorremmo nascondere, ma che non possono fare a meno di esplodere per la sicurezza che offre la maschera. Copre, ma in realtà comunica più di quanto potrebbero svelare le parole. È l’arte del travestimento.


 

 

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