Il lettore in procinto di leggere Trilogia di New York di Paul Auster che pensa di avere a che fare con delle classiche detective-stories vedrà completamente disattese le proprie aspettative. Allo stesso modo, il lettore che si aspetti di trovarsi di fronte alla narrazione realistica e puramente descrittiva di una città intera, è destinato a rimanere molto deluso. La New York che si ritrova nell’opera, infatti, è tratteggiata dall’autore sotto il segno del caos.
Il libro, ormai considerato un classico della letteratura americana contemporanea, è infatti un esempio perfetto di narrativa postmodernista, oltre che del cosiddetto “giallo metafisico”. Quello che ci si trova davanti è un volume contenente tre storie differenti: City of Glass (Città di vetro), pubblicata nel 1985, Ghosts (Fantasmi) e The Locked Room (La stanza chiusa), pubblicate nel 1986. La sua pubblicazione in blocco è motivata dal fatto che la lettura perde tanto di forza se si decide di non leggere le tre narrazioni in sequenza.
Nella prima storia il protagonista è uno scrittore di romanzi polizieschi che, venendo scambiato per un certo Paul Auster, investigatore privato, si calerà, quasi suo malgrado, nei panni di un detective. In Fantasmi il personaggio principale è, invece, Blue, investigatore privato che ha il compito di pedinare Black per conto di White, finché non diventerà poco chiaro chi è realmente a essere pedinato. Infine, La stanza chiusa vede come protagonista un altro scrittore che si ritrova, per cause particolari, a immedesimarsi nella vita di un proprio amico.
Troppo a lungo bisognerebbe dilungarsi sulla definizione di “postmodernismo” per trattare la tematica in maniera esaustiva. Come quasi sempre quando si tratta di categorizzazioni volte a una definizione schematica, gli studiosi non sono arrivati ad alcuna conclusione soddisfacente per tutti, anzi, i dibattiti al riguardo non si sprecano. Si possono però sicuramente attribuire alla narrativa postmodernista alcune caratteristiche: il riflettere su sé stessa quindi la metanarrazione, i plot spesso caotici e aperti, la citazione, il rimando a una tradizione e il gioco con essa, la consapevolezza di venire “dopo qualcosa”.
Il giallo metafisico si colloca perfettamente in questo caotico universo postmoderno: esso, del resto,
rappresenta lo scardinamento di ogni certezza all’interno di un genere classico completamente basato sulla logica.
Infatti, nel giallo classico, quindi nelle vere e proprie detective-stories ci si trova in un universo governato dalla razionalità, in cui, grazie alla deduzione e agli strumenti che si hanno a disposizione, si può districare la matassa. Il detective classico è in grado di riportare l’ordine nella situazione di caos generata dal crimine. Si pensi ai gialli di Arthur Conan Doyle e alle storie del suo Sherlock Holmes, dove, attraverso pochi indizi e la creazione di un filo logico tra di essi, si arriva a una ricomposizione.
Il giallo metafisico, dal lato opposto, nasce proprio nel disordine, che tale rimane anche nel finale, un universo disordinato, nel quale non è possibile la creazione di un filo di ragionamento che faccia tornare tutti i conti. All’interno di Trilogia di New York non è possibile far tornare tutti i conti: ad esempio, la continua ricorrenza dei nomi nelle tre storie diverse non è facilmente riconducibile a un senso, anzi, non lo è affatto. Non si può avere la certezza che il Quinn di cui si parla in Città di vetro sia lo stesso nominato in La stanza chiusa, e lo stesso vale per tutti gli altri personaggi.
Ma se, secondo la visione postmoderna, il mondo è composto da un insieme caotico e frammentato della quale si può avere una conoscenza e una visione solo parziale, si può davvero aspirare all’estrema risoluzione?
[…] le nostre parole non corrispondono più al mondo. Quando le cose erano intere, credevamo che le nostre parole le sapessero esprimere. Poi a mano a mano quelle cose si sono spezzate, sono andate in schegge franando nel caos. Ma le nostre parole sono rimaste le medesime. Non si sono adattate alla nuova realtà. Pertanto, ogni volta che tentiamo di parlare di ciò che vediamo, parliamo falsamente, distorcendo l’oggetto che vorremmo rappresentare. Tutto si fa disordine. […] La parola è rimasta la stessa: perciò non rappresenta più la cosa. È imprecisa; è falsa; cela l’oggetto che dovrebbe svelare. E se noi non possiamo neppure nominare un oggetto comune, quotidiano, che teniamo nelle mani, come potremmo sperare di discorrere delle cose che veramente ci riguardano?
Come l’autore mette in bocca a uno dei suoi personaggi in Città di vetro, probabilmente no. Non ci si può fidare neanche delle parole, che non designano degli oggetti reali in quanto sono poco adatte a descriverli.
Del resto, i continui rimandi metanarrativi (assolutamente coerenti all’interno di una narrazione del postmoderno) fanno sembrare che l’autore pensi insieme al proprio lettore, che lo metta al corrente delle proprie riflessioni sul linguaggio, sulla scrittura, sulla percezione che si ha del mondo, sui punti di vista, sulla relatività di ogni tipo di visione. A riprova di ciò, basti pensare che in Città di vetro uno dei personaggi si chiama Paul Auster e che tutte e tre le storie sono disseminate da scrittori di mestiere, da taccuini misteriosi, da libri da pubblicare.
Tra la descrizione di una New York reale e realistica che è definita “il più miserabile, il più abietto di tutti i luoghi” e personaggi che sembrano “fantasmi”, proprio come il nome del secondo romanzo, evanescenti, che conferiscono un’aria nettamente più onirica al tutto, l’effetto finale è estremamente straniante.
Chiavi interpretative sono, dunque, disseminate ovunque per tutto il volume, in tutte e tre le parti del volume. Summa di tutto la si può trovare nell’epilogo de La stanza chiusa:
[…] non capii praticamente nulla. Tutte le parole mi erano familiari, ma sembravano accostate in maniera bizzarra, come se il loro scopo finale fosse quello di cancellarsi a vicenda. Non saprei spiegarmi diversamente. Ogni frase annullava la frase precedente, ogni paragrafo rendeva impossibile il successivo. […] Eppure, sotto quella confusione, sentivo qualcosa di troppo voluto, di troppo perfetto, come se in ultimo la sua sola, autentica finalità fosse l’incomprensione, anche a costo di non capire se stesso. […]
In principio era il caos.
Trilogia di New York, Paul Auster, Einaudi, 2019