Li conosciamo tutti: i principi e gli obiettivi sono oramai interiorizzati nella nostra coscienza. Ci riferiamo all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Si tratta di una dichiarazione di quanto il mondo attuale si sia sviluppato nella maniera più insostenibile possibile, non solo sul piano ambientale, ma anche economico e sociale.
Già in precedenza abbiamo analizzato la mission, lo spirito che pervade tutto il trattato. In questa occasione, invece, sono due gli obiettivi che meritano di essere evidenziati, per il valore che hanno ormai acquisito nella nostra società, tra i 17 Sustainable Development Goals (SDGs), articolati in 169 Target, da raggiungere il 2030.
“The new agenda is a promise by leaders to all people everywhere. It is an agenda for people, to end poverty in all its forms – an agenda for the planet, our common home”
(Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite).
Dunque, gli obiettivi dell’Agenda che abbiamo intenzione di sottolineare sono il numero nove:
“Costruire infrastrutture resistenti, promuovere l’industrializzazione sostenibile e inclusiva e favorire l’innovazione”;
e il numero undici:
“Rendere le città e le comunità sicure, inclusive, resistenti e sostenibili”.
Fin dall’antichità l’uomo ha costruito case, strade per tracciare i suoi percorsi, gli edifici in cui avrebbe praticato il suo lavoro. Perciò, l’uomo ha lasciato un’impronta sull’ecosistema, modificando il territorio per mezzo del suo insediamento. Come negli anni i materiali e le tecniche sono cambiate, così lo sono le esigenze. Ora è necessario fare i conti con la conservazione dell’integrità del presente, in particolar modo nelle città, terreno privilegiato dove procedere verso uno sviluppo sostenibile.
In realtà, le stesse problematiche ambientali hanno influenzato la cultura architettonica. Una sensibilizzazione che trova i suoi riflessi sia nella salvaguardia che nella valorizzazione della natura, consapevolezza che la degradazione dell’ambiente non possa essere dissociata dal più generale processo programmatico decisionale di cui deve tenere conto.
In questi anni è diventato necessario confrontarsi con importanti temi quali la crescita demografica delle megalopoli, il fenomeno dell’inurbamento. Ora, nel senso comune si presenta la necessità di individuare nuove configurazioni spaziali e materiali che siano “eco-efficienti”, approccio chiave allo sviluppo e alla progettazione di prodotti a basso impatto ambientale. Non è pertanto casuale che nell’ultimo decennio la questione energetica sia divenuta dominante rispetto a una prospettiva di sviluppo sostenibile che metta in gioco aspetti sociali, tecnologici e ambientali del progetto del costruito.
Ma importante è il violento processo di omologazione che è in atto, quello che vede le cosiddette Città Generiche modelli urbani di riferimento. Queste vennero definite per la prima volta dalle parole di Rem Koolhaas in La ville générique (1994):
“La città generica è la città affrancata dall’asservimento al centro, liberata dalla camicia di forza dell’identità. La Città generica spezza il ciclo distruttivo della dipendenza: essa non è nient’altro che il riflesso delle necessità del momento e delle capacità presenti. È la città senza storia”.
Lo stesso Koolhaas, che guardando Singapore, e l’opera di Lee Kuan Yewlo l’ha definito «parossismo dell’operativo», ovvero una nuova città interamente costruita in tempi rapidi, priva di una storia e di tutti quegli archetipi spaziali a noi fondamentali.
“Singapore Songlines è dunque anche l’esplorazione di un sistema politico diverso da quello che l’Europa considera naturale.”
L’essenza di Singapore è quella di ogni nuova città, un vero e proprio modello delle città del futuro. Ma la verità è che Singapore è una città senza storia, senza fondazione e senza luogo, che nasce da una tabula rasa e come disse Gentili “la cui forma è oggetto costante di trasformazione”.
In quest’ottica ormai del nostro presente, le città sono coinvolte in questa rivoluzione. Dove l’efficienza, energetica o in termini di mobilità, prende il sopravvento su quella che è l’identità. Mentre c’è chi richiama l’attenzione verso una rigenerazione dei luoghi, tramite una “ricostruzione”.
C’è chi crede che la rigenerazione possa avvenire scegliendo una seconda opzione: non costruire. Ad affermarlo è infatti Aaron Betsky nel manifesto per l’XI Mostra Internazionale di Architettura di Venezia del 2008, formulando l’opzione del “non costruire”. Si tratta della cosiddetta Architettura del NO!
“Architettura non è costruire, non sono gli edifici.
Architettura è un modo per dare un senso alle nostre vite”.
E nell’ottica di dover realizzare luoghi vivibili, si afferma il bisogno di vedere l’architettura come un modo di capire ciò che è necessario costruire e cosa non lo è, nel rispetto, non solo dell’ambiente naturale, ma anche sociale.
Ci si propone dunque di cercare la sostenibilità oggi. Magari una sostenibilità parziale, piccola, minuta. Diventa ora necessario comprendere che ciò che rende il presente rivoluzionario è la capacità di rendere più sostenibile ciò che esiste. È il minore consumo di risorse non rinnovabili ad essere una possibilità. È il momento di essere meno violenti e brutali con la terra che abitiamo.
FONTI
Rem Koolhaas, “La ville générique” (1994)
Aaron Betsky, “Out there. Architecture beyond building” (2008)