La migrazione è un fenomeno sociale e come tale coinvolge un numero considerevole di individui che per le cause più disparate scelgono – o sono costretti – ad abbandonare il loro luogo di origine per recarsi in un altro, in genere tendenzialmente ritenuto migliore, spesso in base a aspettative createsi per sentito dire. Chi raggiunge i propri familiari, chi lascia il proprio Paese per catastrofi ambientali, chi richiede asilo politico, chi viene perseguitato per la propria appartenenza a un gruppo sociale, chi entra in un Paese senza sottoporsi ai controlli della frontiera e chi persegue un miglioramento economico al di fuori del proprio Paese è per definizione un migrante. Tralasciando le solite implicazioni che partiti e telegiornali non si dimenticano mai di ricordare, c’è una peculiarità che il fenomeno delle migrazioni incarna sempre più radicalmente e che, diversamente dal solito, non riguarda gli adulti, ma i più piccoli. È inevitabile, infatti, che le migrazioni abbiano un impatto sulla sfera della lingua (sia del paese di origine sia di arrivo) ma, mentre la fascia adulta della popolazione ne risente in modo minimo, i più giovani sono soggetti a sovrapposizioni linguistiche problematiche. Lungi dal togliere al plurilinguismo il merito di portare una notevole ricchezza culturale in chi lo possiede, vanno però evidenziate anche le complicazioni che esso porta con sé.
Nel primo anno di vita il bambino, accanto ai gesti rappresentativi puramente fisici, comincia a esprimere le prime parole (circa una decina), in genere legate a ambienti e oggetti familiari o attività ripetitive cui è sottoposto. Queste sono perlopiù composte da suoni nasali o occlusivi e costituiscono lo sviluppo avanzato della cosiddetta “lallazione canonica” tipica dei bambini di sei/otto mesi, in cui vengono ripetute sillabe composte dalla stessa consonante (come ad esempio “papà”). Successivamente, il bambino inizia a apprendere frasi semplici e il vocabolario si amplia fino a circa cinquanta parole verso i diciotto mesi in cui si sviluppa parallelamente la referenzialità, ovvero l’associare una parola a un determinato oggetto. Entro i sei anni l’individuo sarà in grado di entrare in possesso di tutti i suoni della lingua madre e costruire frasi propriamente dette. Segnali di allarme riguardo al corretto sviluppo linguistico di un bambino possono essere, ad esempio, un inventario di parole inferiori a cinquanta all’età di due anni o il non giustapporre due parole intorno ai trenta mesi. In questi casi, può succedere che il bambino presenti ritardi nel linguaggio o veri e propri disturbi specifici del linguaggio. Mentre i primi si risolvono spontaneamente superati i tre anni, i secondi devono essere trattati diversamente.
Per quanto concerne il rapporto lingua-migrazione, il gruppo di studiosi Crescentini-Marini-Fabbro, ha esposto in Competenza e Disturbi di Linguaggio nel Plurilinguismo la stretta correlazione di cause ed effetti che intercorre in un contesto in cui il bilinguismo è dominante: in primis, vengono distinti i concetti di acquisizione e apprendimento di una lingua, che sono rispettivamente l’una un processo
che avviene con modalità naturali, in un ambiente informale e con il coinvolgimento soprattutto della memoria implicita (…) già presente alla nascita e riguardante le conoscenze motorie e cognitive che, pur non essendo accessibili alla consapevolezza, influenzano il nostro comportamento
e l’altro uno sviluppo
che avviene prevalentemente con modalità formali, ovvero attraverso l’apprendimento di regole linguistiche e spesso in un ambiente istituzionale senza la possibilità di interazioni regolari con parlanti nativi.
I tre accademici hanno rilevato che oltre al caso dell’afasia, disfunzione che interessa il corretto funzionamento del sistema linguistico-verbale in seguito a lesioni cerebrali dovute ad esempio a traumi cranici, ictus o tumori, un’altra situazione di disturbo patologico è quello dei bambini bilingui con DSL (disturbo specifico del linguaggio). Essi, nonostante non presentino disturbi cognitivi, non sviluppano correttamente le loro lingue e in questo caso bisogna stabilire se ciò sia dovuto a “un vero e proprio disturbo del linguaggio oppure di una insufficiente esposizione ad una o entrambe le lingue” oppure “se il bilinguismo è la causa o una delle cause responsabili del disturbo specifico dell’acquisizione del linguaggio”. Nel campo di indagine del bilinguismo compatto – quando un individuo apprende lingue diverse contemporaneamente prima dei sei anni perché esse sono usate indifferentemente dal padre e dalla madre – si è rilevato che se si mette a confronto il repertorio lessicale di un bambino monolingue con quello di un bambino bilingue, il secondo sembra accusare un ritardo di sviluppo rispetto al primo, soprattutto nel numero completo di parole che il bambino è in grado di comprendere. Inoltre, è stato osservato che gli individui bilingui, anche in età adulta, impiegano più tempo o producono meno risposte rispetto alle persone monolingui in esercitazioni di denominazione di figure o test di scorrevolezza verbale. Ciò va però compensato con il fatto che “i bambini plurilingui, proprio perché esposti a più lingue, sembrano possedere un repertorio fonologico più ricco rispetto ai bambini monolingui”.
In ultima istanza, si è dimostrato che nel periodo linguistico critico (all’incirca all’età di otto anni) un bambino ha già terminato lo sviluppo fonologico e morfo-sintattico della sua prima lingua e può quindi acquisire completamente una seconda lingua prima ancora di aver terminato lo sviluppo totale della prima. Ciò avviene grazie a una particolare plasticità delle strutture del cervello che si occupano delle suddette procedure. Secondo Fabbro però, “Superata quest’età (…) essi tenderanno ad applicare le regole morfologiche e le strutture sintattiche della prima lingua alla seconda lingua, facendo risultare l’acquisizione di quest’ultima cognitivamente più dispendiosa oltre che difficilmente associata ad una piena competenza”
In definitiva, gli scarsi studi a riguardo non hanno evidenziato un’enorme difficoltà dei parlanti bilingui a sviluppare e distinguere le strutture delle lingue che possiedono, ma al contrario hanno reso evidente la difficoltà di acquisizione/apprendimento di una lingua superato il cosiddetto “periodo critico” degli otto anni, oltre i quali sarà molto più difficoltoso per il parlante raggiungere la piena competenza della lingua, a causa delle limitazioni grammaticali e fonologiche che il passaggio alla pubertà reca con sé.
C. Crescentini, A. Marini, F. Fabbro, Competenza e disturbi di linguaggio nel plurilinguismo, in “EL.LE”, Vol. 1 Num. 3 , Venezia, 2012