American Dirt di Jeanine Cummins (Macmillan, 2020) è stato presentato sin da prima della sua uscita come il nuovo grande romanzo americano, ottenendo un posto d’onore nel book club della presentatrice Oprah Winfrey e un contratto per l’adattamento cinematografico. La trama del volume si incentra sull’epopea di una famiglia messicana, costretta ad emigrare negli Stati Uniti in seguito all’aggressione di un boss locale e ad affrontare le tragiche realtà del confine tra le due nazioni.
Molteplici recensioni di American Dirt, ad opera di lettori e colleghi di origine latino-americana, hanno infatti sollevato perplessità riguardo agli intenti dell’autrice Jeanine Cummins nella rappresentazione di una cultura della quale ha una conoscenza solo enciclopedica. L’autrice, pur essendo per un quarto portoricana — in ogni caso non messicana, è bene specificare per evitare generalizzazioni — non ha infatti attinto alla propria esperienza personale o familiare per la stesura del romanzo: ha infatti dichiarato in passato che, nonostante parte del suo retaggio culturale provenga dall’America Latina, fondamentalmente si considera una donna bianca con tutti i privilegi che ne conseguono. Inoltre, nella presentazione di American Dirt ha fatto un vago riferimento alla vicenda personale di immigrazione vissuta da suo marito, omettendo tuttavia una informazione cruciale, ossia il fatto che suo marito sia irlandese.
Una critica particolarmente dissacrante ad American Dirt proviene da Myriam Gurba, autrice messicana del memoir Cattiva (Fandango, 2019), che sul blog accademico “Tropics of meta” ha denunciato la persistenza di stereotipi etnici potenzialmente dannosi nel romanzo:
Cummins bombarda il lettore di clichés sin dall’inizio. Il primo capitolo inizia con una sparatoria a una quinceañera — una festa per i quindici anni — […] e, sebbene le intenzioni dei cattivi siano ben chiare, questi peccano di caratterizzazione. Soprannominando questi personaggi “i Bogeymen del Messico”, li appiattisce. Associandoli a mostri dai nomi inglesi e provenienti dalle tradizioni europee, Cummins svela l’etnia del pubblico che intende raggiungere: quella bianca. Noi messicani, infatti, non abbiamo paura del Bogeyman. Abbiamo paura del suo lontano cugino, el Cucuy. […] American Dirt non riesce ad esprimere la mentalità messicana. Aspira ad essere il Dia de los Muertos, ma rappresenta Halloween.
Questa discussione è stata accolta dalla comunità di lettori sui social network, dove si sono moltiplicati i post che invitano alla prudenza nell’accostarsi al romanzo, proponendo invece d’altro canto una selezione di libri sull’immigrazione scritti da autori latino-americani. Più recentemente è stata lanciata una petizione nella quale più di 120 scrittori chiedono alla presentatrice Oprah Winfrey di ritirare American Dirt dal suo club del libro. La problematica che emerge da questa controversia è d’altronde ascrivibile a una questione più ampia, che certamente non si esaurisce nel caso specifico di American Dirt, ma che trova in questo romanzo un lampante esempio.
Nella postfazione al romanzo, infatti, l’autrice esplica il desiderio che l’ha ispirata a scrivere questa storia: quello di dare voce alla “massa informe” della popolazione messicana, così come appare nella percezione data dai mass media americani. Il suo intento è quello di fare da ponte tra l’esperienza dei migranti e il pubblico statunitense. Nella stessa postfazione, tuttavia, Jeanine Cummins cita molteplici opere e studi di autori messicani riguardanti la stessa materia del suo romanzo, contraddicendosi così da sola: tornando alle parole di Myriam Gurba, dimostra paradossalmente che gli immigrati latino-americani non solo hanno già una voce, ma anche una bibliografia abbastanza estesa.
Il tema della responsabilità nel raccontare storie dalla forte connotazione culturale è tuttora scottante: il rischio percepito da alcuni lettori è che, mettendo se stessi e le proprie (spesso inaccurate) opere al centro della conversazione, gli autori più privilegiati tolgano spazio — e contratti — ad autori facenti parti delle minoranze etniche e culturali in questione, che a quel punto avranno più difficoltà nel pubblicare le loro storie e far sentire la propria voce.
l fronte più conservatore della critica è propenso a usare il termine “censura” quando si suggerisce di lasciare spazio a un processo di diversificazione della letteratura, ma le statistiche suggeriscono il contrario: il mercato editoriale è propenso a ben altro squilibrio di potere. In base all’ultima rilevazione di Publishers Weekly, l’84% degli impiegati del settore, almeno negli Stati Uniti, è di etnia caucasica, a fronte di un 3% di impiegati di origine ispanica. La possibilità che un autore messicano potesse siglare un contratto come quello di American Dirt, insomma, era già matematicamente più bassa — senza contare altri fattori di discriminazione che, di fatto, intervengono.
Non passare il testimone ai diretti interessati quando si parla di esperienze come quelle dell’immigrazione ha come conseguenza la produzione e la diffusione a livello globale di libri che nel peggiore dei casi contribuiscono a perpetrare stereotipi dannosi e nel migliore dei casi edulcorano delicate questioni socio-politiche riducendole alla loro componente melodrammatica e inducendo nel pubblico un pietismo superficiale.
Di fronte a queste dinamiche l’atteggiamento più auspicabile per noi fruitori della letteratura, a tutti i livelli, resta quello di guardare oltre al nostro orticello e privilegiare voci nuove, diverse e autentiche.
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