Il governo di Pedro Sanchez vuole modificare la Costituzione spagnola, redatta nel 1978 alla fine del quarantennio franchista, per far sì che il testo sia più inclusivo dal punto di vista linguistico: l’intento è di renderla più rispettosa dei principi di uguaglianza tra uomo e donna. L’incarico di stendere un rapporto dettagliato sulle sezioni in cui intervenire è stato affidato più di un anno fa alla Real Academia Española, il supremo organismo responsabile di regolare le norme della lingua spagnola. Fin qui, un paradigma già sentito e affrontato dalle realtà linguistiche di più nazioni. La svolta, in questo caso, sta però nella risposta dell’Academia: gli studiosi ritengono che non esistano motivi sostanziali per modificare il testo costituzionale. Non intendono insomma discostarsi dalla Doctrina Bosque: questa prende nome dal linguista responsabile del dossier di 8 anni fa Sessismo linguistico e visibilità della donna, oltre che coautore del rapporto di questi giorni. Le indicazioni della Doctrina si basano essenzialmente sull’idea che “non ha senso promuovere politiche normative che separino il linguaggio ufficiale da quello reale”: quindi non sarà introdotta alcuna distinzione tra ministro e ministra. Respinta anche la proposta di sdoppiare le formule includendo la forma maschile e quella femminile per ragioni di economia del linguaggio: dire “Consiglio dei ministri e delle ministre” è giudicato inutilmente artificioso.
Ha ancora senso parlare di sessismo linguistico?
Il termine “sessismo linguistico” viene coniato tra gli anni anni Sessanta e Settanta nell’ambito di studi americani sui modi in cui si manifestava la differenza sessuale nel linguaggio. La questione prese piede in Italia un decennio più tardi, e fu sostenuta dall’uscita nel 1987 de Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini: il volumetto allarga un dibattito, prima esclusivamente sociolinguistico, alla portata dell’opinione pubblica, con lo scopo anche politico di contribuire alla parità fra sessi tramite un più ponderato utilizzo del linguaggio. Questo, investito di un forte potere socio-poietico, doveva secondo l’autrice essere corretto per cessare di privilegiare il genere maschile: la speranza era che da parole più rispettose nascesse un atteggiamento dello stesso tenore nei confronti del genere femminile. Molte delle indicazioni vengono accolte e cominciano ad entrare in uso: non si tratta solo del femminile nelle professioni (le “ministra”, “avvocatessa” e “medica” tanto acclamate dai media negli ultimi anni) ma, per esempio, di impiegare espressioni più generiche piuttosto che prettamente individuanti la categoria maschile: a “Diritti dell’uomo” subentra l’espressione “Diritti della persona“.
Il Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche del 1993 recita così:
Il fatto che in italiano il genere grammaticale maschile sia considerato il genere base non marcato, cioè […] valido per entrambi i sessi, può comportare sul piano sociale un forte effetto di esclusione e di rafforzamento di stereotipi. […] l’amministrazione pubblica, attraverso i suoi atti, appare un mondo di uomini in cui è uomo non solo chi autorizza, certifica, giudica, ma lo è anche chi denuncia, possiede immobili, dichiara, ecc.
L’italiano è una lingua irrimediabilmente sessista?
Gli studi di Sabatini e di Cecilia Robustelli, collaboratrice dell’Accademia della Crusca, hanno analizzato l’uso del genere maschile neutro, o inclusivo, in riferimento a gruppi misti o dalla composizione non nota. Secondo le due studiose, questo genere non andrebbe però a includere la componente femminile, bensì a nasconderla: sarebbe il riflesso linguistico di un sistema sociale e politico a forte inferiorità numerica del sesso femminile.
L’importanza di una lingua non sessista
Proposte efficaci per ovviare al problema, diffuso in moltissime lingue, ancora non sono state formulate. Ciò che emerge, è la radicale necessità di un linguaggio inclusivo, specchio di una società più equa. Per raggiungere quest’obiettivo, però, un utilizzo consapevole del linguaggio sarebbe sicuramente più efficace di tecniche imposte dalle Accademie, le quali difficilmente entrano nell’uso comune. Più che l’inserzione dello sdoppiamento in “Consiglio dei ministri e delle ministre”, sarebbe necessario un generale ripensamento del ruolo istituzionale: ovvero il fatto che, insomma, una donna “ministro” non sia più l’eccezione, ma una comune regola.