“Mi ricordo che c’era una libreria, su Ulica Gor’kaja, a poche decine di metri dalla Piazza Rossa, una specie di libreria volante e informale, che si caratterizzava […] per il fatto di vendere un libro solo, pile e pile di copie di Mosca-Petuškì, il poema (ferroviario) di Venedikt Erofeev”. Inizia così l’introduzione all’ultima edizione italiana del romanzo Mosca-Petuškì, curata da Paolo Nori, e queste parole sembrano anche a noi ideali per iniziare a parlare di un’opera unica nel suo genere, che è riuscita a farsi portavoce di un’epoca e delle sue tragiche e grottesche contraddizioni.
Venedikt Erofeev finì di scrivere Mosca-Petuškì, da lui definito “poema ferroviario”, nel 1970, ma esso vide ufficialmente le stampe solo nel 1989, sulle pagine della rivista “Sobrietà e cultura”, impegnata nella campagna contro l’alcolismo promossa da Gorbačëv. Trovata alquanto ironica, se si pensa che Mosca-Petuškì è un’opera tutt’altro che sobria: al contrario, si tratta di un vero proprio delirio alcolico, un allucinato viaggio che il narratore compie tra Mosca e Petuškì, sua città natale e simbolo di una agognata salvezza.
La trama, dunque, è estremamente semplice: in un freddo venerdì mattina moscovita, Venička – alter ego per nulla mascherato dell’autore stesso – si dirige verso la stazione, dove salirà su un treno diretto a Petuškì per incontrare la sua amata. Prima di iniziare il viaggio, però, il narratore si procura abbondanti scorte di alcolici, che gli faranno compagnia per tutto il corso della narrazione. Il tragitto in treno, dunque, oltre a costituire un topos nella tradizione letteraria russa, fa da cornice al lunghissimo monologo-delirio del protagonista, nonché all’incontro, nel vagone, con personaggi altrettanto strambi con cui imbarcarsi in non meno allucinate conversazioni.
Se l’ebbrezza di Venička lo rende, non a torto, un narratore poco affidabile agli occhi del lettore, è anche vero che proprio la sua presunta inaffidabilità lo libera da qualunque forma di autocensura. Per il lettore occidentale è forse naturale il parallelismo con i giullari di shakespeariana memoria, mentre nella tradizione russa il riferimento immediato è al cosiddetto jurodivyj, il folle in cristo, un personaggio da tutti considerato pazzo, ma che è l’unico in grado di dire la verità e di entrare in contatto con Cristo. Similmente, Venička, in nome della sua ubriachezza, è libero di abbandonarsi a uno sfrenato flusso di coscienza, in cui non si risparmia di ironizzare sulla società a lui contemporanea.
È il caso ad esempio delle comiche pagine in cui il narratore racconta della sua ultima breve esperienza di lavoro come caposquadra. Con l’ingenuità di un bambino, Venička descrive la classica giornata lavorativa dei suoi compagni e sua, caratterizzata da partite a carte e lunghe bevute: quasi senza accorgersene, il protagonista smaschera il mito sovietico dello stacanovismo e dell’iper-produttività, svelando come la macchina della propaganda e un sistema enormemente burocratizzato nascondano, in realtà, una società abbandonata a se stessa, nel caos e nella miseria.
“E per un po’ è andato tutto benissimo: noi mandavamo là, una volta al mese, i nostri impegni socialisti, e loro ci mandavano, due volte al mese, lo stipendio. Noi, per esempio, scrivevamo: in occasione dell’imminente centenario ci impegniamo a eliminare gli incidenti sul lavoro. O così: in occasione del glorioso centenario faremo in modo che un lavoratore su sei si iscriva a un corso di istruzione superiore per corrispondenza. Ma lì, che incidenti sul lavoro e che corsi, se non vedevamo altro che la sika (gioco di carte simile al poker, ndr.) e eravamo in cinque in tutto!”.
Venička, insomma, sembra aver ben compreso gli ipocriti meccanismi che regolano il lavoro nella società sovietica, e, a suo modo, a essi tenta di adattarsi. A questo intento è dovuta dunque la brillante idea di stilare dei grafici, perfetti per compiacere la smania burocratizzante dei dirigenti e per alimentarne l’illusione di potere. Il tentativo del protagonista, tuttavia, è a dir poco maldestro, e finisce così per portare a un risultato opposto al voluto e al suo licenziamento. I grafici stilati da Venička, infatti, indicano le quantità di alcolici consumate da ogni lavoratore durante il proprio turno. Erofeev riesce così a mettere in ridicolo il sistema, applicando fino all’assurdo le regole che questo impone.
Proseguendo con la lettura, la voce del protagonista si mescola a quelle dei vari passeggeri del treno, e il discorso si fa sempre più intricato e surreale. I viaggiatori, come in ogni romanzo russo che si rispetti, si propongono di intraprendere conversazioni filosofiche, ma a ogni massima dalla portata tragica e universale fa da contrappunto un’immediata ricaduta nel triviale e nel grottesco, dovuta all’alto livello alcolico che intercorre tra i parlanti. Così, tra un aneddoto e l’altro, tra i riferimenti evangelici e le ricette per cocktail micidiali, questa banda di ubriachi e disadattati finisce inevitabilmente per parlare di rivoluzioni, immaginandosi persino di farne una.
“Perché dimentichiamo cosa deve coronare ogni rivoluzione, cioè i «decreti»? Per esempio, questo decreto: obbligare la zia Šura a Polomy a aprire il negozio alle sei del mattino. […] Oppure, per esempio, un decreto sulla terra: assegnare al popolo tutta la terra del distretto, con tutti i beni mobili e immobili, tutte le bevande alcoliche e senza nessun indennizzo. Oppure: spostare la lancetta dell’orologio due ore avanti, o un’ora e mezzo indietro, è lo stesso, solo spostarla da qualche parte”.
Venička guarda alla rivoluzione con estrema disillusione, cosciente del fatto che spesso i cambiamenti introdotti sono fini a se stessi, utili ancora una volta ad alimentare una finzione in cui tutti – quanto meno i sobri – sono costretti a credere.
Non stupisce, alla luce di quanto detto, che trent’anni fa tutti in Russia conoscessero questo libro. Addirittura, aggiunge Nori nella sua introduzione, il libro era circolato per anni in forma clandestina, ricopiato a mano, fotocopiato e diffuso tra amici e conoscenti, ancora prima della sua pubblicazione ufficiale (è il cosiddetto fenomeno del samizdat, ne abbiamo parlato qui). Con la sua intonazione al tempo stesso dissacrante e solenne, tragica ed esilarante, triviale e poetica, Mosca-Petuškì riusciva – e forse riesce ancora oggi – ad avere un effetto catartico sui lettori. La carnevalesca follia di Erofeev, infatti, gli permette di parlare senza freni, dicendo tutto ciò che il lettore non osa nemmeno pensare e liberandolo così per un momento da ogni forma di costrizione.
FONTI:
V. Erofeev, Mosca-Petuskì. Poema ferroviario, Macerata, Quodlibet, 2014
P. Nori, Introduzione, in V. Erofeev, Mosca-Petuskì. Poema ferroviario, Macerata, Quodlibet, 2014
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