Di serie tv come Luna Nera non se ne vedono molte da queste parti. La terza produzione originale italiana di Netflix – dopo Suburra e Baby – prende il fantasy molto seriamente, e lo declina sotto ogni aspetto in chiave femminista.
La sua è una storia medievale di streghe, formule magiche e inquisitori. Siamo in un villaggio del Lazio del 1600 e la levatrice sedicenne Ade (Antonia Fotaras) viene ritenuta responsabile della morte di un neonato. Accusata di stregoneria e condannata al rogo, Ade è costretta a fuggire con il fratellino Valente (Giada Gagliardi), trovando protezione in un clan di donne che per lo stesso motivo vive nascosto nei boschi. A darle la caccia sono i Benandanti, un gruppo di fanatici sostenuti dalla Chiesa, di cui fa parte anche il giovane Pietro (Giorgio Belli), che non crede alla stregoneria e instaura una relazione con Ade.
Luna Nera sembra quindi un po’ un teleromanzo di formazione: Ade deve imparare a conoscere se stessa tanto quanto i suoi poteri, e nelle tre streghe che la accolgono trova presto un punto di riferimento. Si tratta di un modello esemplare di solidarietà tra donne, infatti. E soprattutto di figure femminili piuttosto diverse tra loro, ma ugualmente forti e abituate a contare soltanto su di sé.
Proprio questo, suggerisce il racconto come anche i libri di storia, è il movente inconscio dell’inquisizione. Le streghe non sono perseguitate poiché eretiche, bensì in quanto donne la cui indipendenza incute timore e soggezione.
Che la serie tenga particolarmente a quest’ultimo concetto lo si capisce bene fin dal primo dei suoi sei episodi. Forse anche perché Luna Nera è un singolare caso – almeno per quel che riguarda la serialità italiana – di produzione tutta al femminile. Tiziana Traina, autrice di Le città Perdute, il primo libro della trilogia di romanzi Luna Nera, ne ha ideato il mondo narrativo. Insieme a lei, Francesca Manieri, Laura Paolucci e Vanessa Picciarelli ne hanno sviluppato la sceneggiatura. La regia, infine, è firmata da Francesca Comencini, Susanna Nicchiarelli e Paola Randi.
Qui lo scenario fantasy non è che un pretesto per srotolare un ritratto allegorico della misoginia – o più in generale della paura del diverso – ancora molto valido nel presente. Ed è intento che rende a Luna Nera il merito di aver provato a spingere la serialità italiana fuori dalla sua zona di comfort realista.
Se tuttavia le serie tv sovrannaturali nostrane faticano ad attecchire con la stessa forza di altre produzioni europee, un motivo c’è. Riguarda la credibilità e Luna Nera ne è la dimostrazione più concreta.
Difficile infatti concentrarsi sull’ammirevole messaggio della storia, se lo stile di recitazione si affida al trionfo del sospiro. Ogni battuta – più o meno intensa che sia – viene pronunciata con un’enfasi teatrale che di certo non aiuta la fluidità del racconto. L’espressività sempre e comunque contrita degli interpreti poi stranisce: la bravura della protagonista Antonia Fotaras, per dire, non sembra la stessa vista ne Il nome della rosa.
Difficile anche restare aggrappati allo snodarsi della trama, che è un fiume di tante parole e davvero poche azioni. Gli eventi importanti sono minimi, centellinati, e si perdono in una scrittura che insegue in continuazione la frase a effetto, l’adagio di vita da cioccolatino. Così ne va di naturalezza. E ancor più di intensità, che sembra peraltro sbilanciarsi sulla componente romantica e secondaria della storia, mentre quella sovrannaturale subisce un trattamento molto più approssimativo.
D’altronde, alla costruzione graduale del pathos non contribuisce granché nemmeno la messa in scena. Poche produzioni – e non certo si tratta di quelle italiane – hanno la fortuna di disporre di budget faraonici, vero. Ma la capacità di coinvolgere passa anche dai piccoli dettagli, siano parrucche che non sembrino prestate dalla Melevisione o rocce che non odorino di posticcio.
Proprio sulla qualità delle interpretazioni e la bellezza degli scenari, la serie britannica A Discovery of Witches ha posto le basi per coinvolgere, nonostante la sua premessa fantasy annacquata nel romanticismo. Luna Nera invece no. Benché a parità di genere abbia un involucro e intenti molto più affascinanti, se ne rimane piuttosto indifferenti.
Perché è un progetto inedito, eppure cade in vizi che la rendono terribilmente simile a tante altre produzioni italiane riuscite a metà. Più che avvicinarsi all’aura del fantasy internazionale, Luna Nera ricorda Fantaghirò. Che si riguarda sempre volentieri e con inguaribile nostalgia, ma ridendo.