La filosofia del dubbio: Kierkegaard

Chi non si è mai trovato di fronte a una scelta senza sapere che cosa fare? Che si tratti di decidere se accettare o meno la proposta di matrimonio oppure quale marca di balsamo comprare, la scelta è una necessità della nostra vita quotidiana. E se provassimo a non scegliere? Questa è l’opzione prediletta dal filosofo Søren Kierkegaard. Non si pensi però a una banale indole ignava: la vita stessa di Kierkegaard testimonia la gravità della sua decisione.

Il filosofo, che trascorse gran parte della sua vita a Copenaghen, fu infatti fidanzato con una donna di nome Regine Olsen. Dopo qualche anno decise però di rompere tale fidanzamento: il motivo reale è sconosciuto, tuttavia Kierkegaard dichiarò, nel suo Diario, di sentire su di sé una minaccia oscura, che temeva di trasmettere, sposandola, alla moglie. Il filosofo danese forse si riferiva a una “maledizione” ereditata dal padre, Michael Pedersen, il quale avrebbe compiuto un grave peccato (non ben definito). Certo è che il giovane Søren dovette affrontare la perdita di molti fratelli, inoltre la rigida educazione di stampo pietista alla quale fu avviato non diminuì affatto la tendenza malinconica del ragazzo.

Malinconia e angoscia: due termini chiave per comprendere la filosofia kierkegaardiana. Il giovane filosofo sentiva costantemente gravare su di sé la minaccia del nulla implicata dalla scelta. Quest’ultima è infatti proiettata sul futuro, luogo della possibilità: di fronte a sé l’uomo ha quindi milioni di ipotesi positive ma anche, contemporaneamente, negative. È dunque l’incertezza a generare nell’uomo l’angoscia, un sentimento indeterminato che ci fa temere ciò che ancora non è. Angoscia non è paura: quando si prova timore, si conosce l’oggetto della propria fobia. Un uomo che soffre di aracnofobia e vede un ragno in bagno esce dalla stanza. Se però il ragno all’improvviso sparisce, il nostro uomo sarà terrorizzato dalle infinite possibilità che si trova di fronte: dove sarà l’animale? Quando comparirà? Lo morderà?

Il filosofo danese esprimeva questo suo timore esistenziale in termini un po’ più seri, proclamandosi “discepolo dell’angoscia” o “cavia d’esperimento per l’esistenza”. Lo stato di indecisione permanente in cui egli diceva di vivere lo portò anche a non concludere la carriera di pastore verso la quale si era avviato.

Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esistenza al punto zero, tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra il qualche cosa e il nulla come un semplice forse.

Il “punto zero” consiste nell’equilibrio instabile tra le opposte alternative che si spalancano di fronte a ogni scelta. L’individuo è solo, privo di un centro e governato dall’instabilità. Tuttavia, Kierkegaard vedeva nel cristianesimo l’unica religione in grado di salvare l’uomo. Per il filosofo, fondamentale è l’attimo di adesione alla fede, che comporta l’irruzione di Dio nella vita dell’individuo. Colui che è devastato dalla disperazione (la quale non è altro che una sfumatura della paura) per i peccati compiuti, non appena effettua il “salto nella fede” viene redento da Cristo, ancora di saggezza che rivela all’uomo la verità. La fede non è razionale, anzi, contraddice apertamente la ragione perché non è comprensibile. Accettare di credere in un uomo che è insieme Dio equivale a effettuare un coraggioso balzo nell’irrazionalità.

Per questo il filosofo criticava pesantemente la Chiesa danese, improntata sul rispetto di rigide norme e poco attenta al singolo credente. Per Kierkegaard, invece, la vera religione si basa sul rapporto diretto tra Dio e l’uomo, non tra Dio e l’insieme degli uomini. Cristo si rivolge personalmente al singolo, e soprattutto all’umile; la folla, al contrario, non è in grado di comprenderlo. Fortissima è dunque la critica nei confronti dell’idealista Hegel, che dava all’umanità nella sua interezza il ruolo di protagonista della sua filosofia; secondo Kierkegaard egli non faceva altro che dissolvere il singolo soggetto pensante nella totalità, sminuendone il valore. La comunità cristiana, invece, non doveva essere una folla incapace di comprendere il messaggio evangelico, ma un insieme di individui ben consapevoli della propria fede.

La difesa della singolarità dell’uomo contro l’universalità hegeliana è decisiva anche sul piano filosofico: l’individuo infatti conosce il proprio Io gradatamente, attraverso i diversi stadi dell’esistenza. Nell’individualità si concretizza un’esperienza esistenziale, oltre che religiosa, irripetibile: per questo Kierkegaard è anche definito il “padre dell’esistenzialismo”. Questa definizione, però, è stata oggetto di discussione perché non pone in evidenza la peculiarità della corrente esistenzialista novecentesca, basata sulla visione di Sartre secondo cui “l’esistenza precede l’essenza”. Inoltre, Kierkegaard non utilizzò mai il termine “esistenzialista” per riferirsi al proprio pensiero. In qualunque modo la si definisca, però, la filosofia kierkegaardiana rimane sempre ricca di fascino e attrattiva.

FONTI

Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Con-filosofare 3A, Paravia Pearson, Torino 2016

filosofico.net

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