“Basta!”
Qualche mese fa è uscito il libro di una nota giornalista italiana. L’ennesima occasione di quella non necessaria scadenza annuale che spinge i giornalisti televisivi a riempire gli scaffali delle librerie di un ormai sciupato e ridondante moralismo pamphlettistico.
Il titolo dell’opera di questa ennesima giornalista italiana – innominata per via della facile identificazione con la maggioranza degli altri professionisti del suo settore lavorativo – è caratterizzato da un forte vigore, da una potenza esclamativa che quasi ci fa pensare di trovarci dinanzi a un’opera dall’effettivo tenore critico: Basta!.
Così, nella testa del potenziale compratore, segue nell’immediato la domanda: “a cosa?”. Qualunque sia la risposta (è sufficiente, per questo, se proprio necessario, leggere il libro), è l’essenza generale del discorso ad interessarci, la caratura morale di quel punto esclamativo.
L’ennesima, reiterata e ingenua invettiva su questioni sociali di primaria importanza, affrontate tuttavia con lo sfiancante snobismo e con la smorta correttezza politica di chi non ci si sporca realmente le mani. È quel fenomeno di sproloquio dozzinale a cui si riferiva Ricky Gervais nella controversa e affascinante presentazione dei Golden Globes di quest’anno. Questi diceva:
Se vincerete un premio, stasera, per favore, non usate questa come una passerella per fare il vostro discorso politico. Non siete nelle condizioni di dare lezioni al pubblico. Non conoscete nulla del mondo reale!
Speriamo che i “basta!” starnazzati da un’inconsapevole giornalista di potere non siano l’unica voce del discorso morale reclamante diritti. Siamo consapevoli che ci sia un modo più profondo di disturbare i codici immorali di un Sistema opprimente – il quale non si preoccupa, anzi, si schiera a favore dei discorsetti superficiali, distaccati e favolistici di chi parla in nome del “buon senso comune”, senza voler attivare con forza un’attuale trasvalutazione di valori corrotti. Con questa speranza e questa consapevolezza, allora, c’è bisogno di chiedersi (e sarebbe colpevole non farlo) qual è l’utilizzo che va fatto di quel “basta!” in un mondo dominato dall’individualismo e dalla violenza tardo-capitalista. Un mondo in cui l’indottrinamento comune porta persino all’ironia o allo spavento nell’utilizzo della parola “Capitalismo”. Nella religiosa e impossibile fede tatcheriana nel “there is no alternative”.
Ora, accorgiamoci di come quest’ultimo sia un mantra promulgato dall’1% della popolazione per mantenere la violentissima e dispotica pace delle sue finanze. Rendiamoci dunque conto delle condizioni di schiavitù in cui l’ideologia del neo-liberismo competitivo, impersonale e disumanizzante mantiene la maggior parte della nostra gente, delle nostre sorelle e fratelli. Disuguaglianza economica neo-feudale, sfruttamento di masse lavoratrici a cottimo e prive di benefici sindacali da parte delle aziende dei monopoli globali. Ma anche inesistenza di un’informazione trasparente, sorveglianza digitale oppressiva, impotenza degli stati e confederazioni di fronte all’arbitrio violento ed illegale delle potenze di mercato. Inoltre, depressione dilagante nei luoghi di lavoro e per l’assenza di luoghi di lavoro.
Chiediamoci perché, allora, parlare degli sviliti argomenti morali concessi dal sistema mediatico sia pressoché inutile. Non è concesso invece un discorso anti-sistema che metta la lente sulle incoerenze di un capitalismo su cui raramente conduciamo un discorso critico profondo, e che religiosamente accettiamo come “unica (ingiusta, tirannica, inumana) alternativa”.
“Sorry, we missed you”
Una delle rare voci a condurre un discorso di questo tipo è l’immortale cinema di Ken Loach. In un’epoca in cui il supposto cinema anti-sistema e indipendente è talmente ben assorbito dal sistema da diventare più mainstream del cinema di sistema (pensiamo all’imbarazzante successo di botteghino del Joker di Todd Phillips), fare un film effettivamente disturbante e scuotitore di coscienze è un’impresa titanica, eroica contro il potentissimo dio di un ideale postmoderno così pervasivo.
Sorry, we missed you di Ken Loach è la dimostrazione che ogni discorso morale significativo – dalle necessarie lotte al sessismo, al razzismo, alle disuguaglianze e alle altre bandiere d’impegno politico spirituale – può poggiare solo su una critica acerba e demistificante sui fondamenti di tutti quei dolori, sull’ontologia sociale affermata che maschera i suoi delitti e che perpetua solo nell’illecito interesse dei sempre-più-ricchi, quegli egoisti che impongono l’egoismo, quei disamorati che impongono il non-amore, quei cinici produttori che impongono la produzione come unica alternativa di vita.
Non è una favoletta, quella di Ken Loach. Non è un’accozzaglia di stereotipi e letture banalizzanti, ma una narrazione reale, struggente ed effettiva. Ricky e Abby, una coppia felicemente sposata di New Castle, vive gli orrori della straziante povertà precaria dei pieni anni Duemila. Ricky ha venduto il van di sua moglie per acquistare un furgone ed affidarsi alle promesse di un terribile antagonista, una delle tantissime maschere abiette di un sistema produttivo che impoverisce e sfrutta: il titolare di una grossa ditta di trasporti interessato solo agli indici di profitto.
La storia della coppia e dei loro figli è una tragedia di mortificazione economica, psicologica e sociale impossibile da comprendere se non empatizzando con lo schermo. Le vicende di una madre che perde le sue notti di sonno per rincorrere straordinari non pagati. Le sconfitte precoci dei figli che fanno fin troppo presto la conoscenza con un mondo ingiusto. La desolazione di un padre che affronta a testa bassa al ladrocinio dei suoi diritti umani…
Tutta questa è l’amarezza di una piaga a noi tristemente nota, pur se perennemente nascosta alle nostre coscienze con un gioco di oblio e convenienza. Ken Loach mostra come la libera anarchia, l’elusività fiscale, l’opacità morale e lo strapotere sul politico da parte delle grandi corporation del mondo digitale finiscano – udite, udite – per torturare l’esistenza di chi non ha scelta. L’esistenza di chi non riesce ad appoggiarsi sulla boa della tutela statale. Di chi affoga nel libero mercato che ci mercifica, nelle mani di un Leviatano non politico che nasconde la sua faccia e fa credere a tutti che non vi sia un’alternativa alle catene.
La violenza che sottopone Ricky ai ritmi di alienazione in favore di una macchina – la “pistola” scanner che traccia i suoi passi e lo sottopone ad un costante stato di controllo – descrive una logica di potere ben definita. La riduzione della vita umana, del suo libero potere lavorativo e creativo ai criteri di efficienza di uno strumento controllato da un computer centrale.
Quando si parla di privatizzazione, di “liberazione” del mercato dallo Stato, di legittimità dello strapotere antropologico e finanziario di poche mani, Loach ci fa pensare alla tutela che il potere politico garantisce – idealmente nel nostro interesse – contro gli abusi di chi vive nel perseguire fini egoistici, di franca inutilità e di pubblico danno.
Si pensi che chi viene imputato per reati inumani e dissacranti nei confronti del cittadino e della comunità, per poi venire assolto con la patente dell’“offre posti di lavoro”, non è un prigioniero che non ha scelta, non è un cane da lotta addestrato nella trasformazione della propria natura, ma un libero individuo che deliberatamente decide di perseguire i propri interessi a scapito di tutto, pur se questo significa violare i diritti acquisiti della società moderna, violare gli orizzonti della comunità politica e fare di ogni umano un mezzo per un fine di accumulo immorale e sconsiderato.
E questi sarà lo stesso, con immancabile certezza, che devolverà un grande sputo del suo oceanico patrimonio alle iniziative morali e alla pace nel mondo, per arricchire la nostra tragica storia capitalista di un orpello di sprezzante ipocrisia. Spesso, lo sfruttatore appartenente all’1%, è un Eichmann che partecipa ad un crimine istituzionalizzato, che va sotto il nome di “capitalismo rampante”. Spesso si tratta di un Hitler artefice della propria vanagloria e dell’altrui devastazione. Un tragico antagonista che maschera coi nomi di “destino” e “necessità” le orme di un percorso evitabile, le macerie di una strada rubata – la strada dei volti umani.
Film Ken Loach, Sorry, we missed you, 2019.