Che cos’è una bambola? Un burattino senz’anima o un simbolo ludico e religioso, fortemente comunicativo? Entrambe le risposte sono vere, così come sono false. Ed è la loro ambiguità che dona terreno narrativo agli artisti contemporanei, artefici di un nuovo modo di vedere la bambola, che passa dall’horror, a nuovi canoni estetici fino alla riflessione pedagogica.
La bambola ha una storia antica come il mondo. Basti pensare che le sue origini risalgono alla Preistoria, quando la sua figura si rivestiva di legno o cera. Era un oggetto rude, greve, così semplice da racchiudere in potenza tutte le declinazioni fantasiose della mente infantile. Così la bambola era gioco, ma era anche religione. Era oggetto di consumo, ma anche simbolo, feticcio, di un pensiero più mistico.
Con il tempo la bambola ha incominciato a vestire eleganti abitini e a richiedere materiali da costruzione più pregiati. Ecco quindi che alla fine del 1800 compaiono figurine in porcellana, dagli occhi acquosi e i volti umani. Ma la vera svolta si ha nel 1945, a Los Angeles, con la nascita di Barbie, una bambola che abbandona le vesti vittoriane e accoglie Hollywood.
La bambola non è più un’icona idealizzata, ma diventa la proiezione della donna moderna, affermata. La rappresentante di un futuro prossimo a cui la bambina si sente più vicina, perché finalmente possiede un oggetto che lo simboleggi. Tuttavia manca un aspetto alla narrazione storica. Com’è stata rappresentata la bambola nell’arte? Certo è un incantevole ornamento pittorico nelle scene di interni, dal Rinascimento al Romanticismo, ma può rivestire altri molteplici significati.
Per questo ci rivolgiamo all’arte di oggi, che offre una rappresentazione ibrida, dalla componente orrorifica, a quella più critica, per poi passare alla riflessione citazionista e pedagogica. Sono rivisitazioni originali e accattivanti del millenario modello iconico, da sottoporre all’attenzione del lettore.
La bambola in chiave orrorifica
C’è un’isola in Messico. La chiamano Isola delle bambole impiccate o, con il suo nome originale, Isla de Las Munecas. È un frammento di terra che emerge dal lago Xochilmico e lascia dimenticare il ricordo infantile della bambola. Perché lì non ci sono figurini in abito da the, dallo sguardo sorridente e dalla pettinatura impeccabile.
Lì riposano relitti di una storia dimenticata, che appartiene a un folle, un visionario o più semplicemente, un uomo che ha sofferto. Si tratta di un contadino che, negli anni Cinquanta si trasferì sull’isola come eremita, lasciando la famiglia. Si dice che abbia visto una bambina annegare e della cui memoria sia rimasta solo una bambola sulla riva del lago.
Da quel momento il contadino ha creato un santuario in suo onore, un crogiolo di corpi di bambole spezzati e mutilati, coperti dal muschio e dai segni dell’età, come omaggio alla bambina. Sembra di creare lo scenario perfetto per un film di Tim Burton e non è molto lontano dalla realtà, dato che il regista ha voluto visitare di persona il luogo nel 2012 come fonte ispirazionista.
Tim Burton rende le creature ultraterrene e il mondo dei morti due componenti essenziali per la sua narrazione cinematografica. E offre uno stimolante spunto creativo per la rappresentazione della bambola in chiave orrorifica e demoniaca, cavalcando la scia di successi cinematografici come Chucky: La bambola assassina o Annabelle.
È l’artista americano Shain Erin che raccoglie questa sfida, con il suo approccio surrealista e visionario. Agisce da esorcista sulla rappresentazione della bambola come inflazionato simbolo di paura infantile e domestica. Quello che dovrebbe essere un gioco, una forma di intrattenimento e trastullo per i bambini, diventa un’inquietante presenza sulla mensola di casa.
Non si conosce cosa alberghi in quel corpicino, se l’anima di un serial killer o quella di un demone. Tutte e due le figure riflettono però un’immagine distorta della bambola, volutamente deformata per allontanarla dal canone affettivo che possiede sin dalle sue origini. Così come la cinematografia horror, anche Shain Erin ha sfruttato l’elemento visivo deformante.
Il suo tocco consiste nel lavorare sull’alterazione visiva, rendendo esteticamente aberrante il volto delle bambole che crea. Il mezzo diventa paradossalmente lo strumento per raggiungere un vasto pubblico, seppur spaventandolo. Il lavoro dell’artista si coagula così in una summa citazionista che si rifà all’arte popolare, al folclore e alla mitologia.
La bambola nella ridefinizione di un canone estetico
Anche l’artista francese Catherine Théry gioca sull’immagine conosciuta della bambola, o meglio, della Barbie, con il suo corpo affusolato da ballerina e la classica chioma bionda. In questo caso, la sua deformazione corporea non è però orrorifica, ma citazionista e omaggia l’arte novecentesca.
Non si è mai vista una Barbie così, lontana dagli aperitivi con le amiche, dalla sua Jeep gialla e dal suo Ken perfettamente palestrato. Perché quella di Catherine è una Barbie nuova, una bionda che conta, come direbbe la cantante Myss Keta, ma non per la ricchezza dei suoi accessori, bensì per la funzione che svolge, quella di richiamo citazionista al mondo dell’arte.
Una realtà sì conosciuta, ma che è sempre meglio riproporre e indagare, in modo che il pubblico la renda parte della sua conoscenza storica. Così per una volta, come raccontava Gianni Rodari in una delle sue storie, non ci si concentrerà solo sulla bambola e sulle infinite cose che possiede, ma invece su quello che dovrebbe possedere il bambino, non solo materialmente, ma anche cognitivamente.
Così la silhouette perfetta e sensuale di Barbie diventa mannequin per la riproposizione di dipinti di celebri artisti, da Salvador Dalì, a Frida Kahlo, fino a Magritte. Si allontana quindi dal modellino da vestire e adattare alle più fantasiose storie delle bambine, fino a diventare strumento di omaggio e celebrazione artistica, in una narrazione metalinguistica.
Si parla di metalinguismo perché il corpo della bambola rimanda all’icona della Barbie, che a sua volta rimanda a opere d’arte impresse nella Storia. I dipinti riflettono così una scena teatrale, dettata dalla pura esposizione corporea della bambola, che offre sé stessa all’esposizione fruitiva, così come le opere trovano collocazione in musei e gallerie.
L’artista trasmette con le sue opere un inno all’eternità e alla bellezza. Così come il corpo della Barbie rimarrà immutabilmente perfetto e intoccato, anche le opere da lei scelte avranno la loro aspirazione all’eterno, a un Paradiso dove la memoria storica occupa un ruolo dominante. Per questo Catherine sceglie di collocare le sue creazioni in una mostra intitolata Andremo tutte in Paradiso.
E non è strano che il titolo rimandi a una connotazione religiosa, poiché la magia e l’esoterismo sono strettamente correlati alla sfera dell’infanzia. Per questo il pittore Mark Ryden ne fa i portavoci della sua poetica, in una raffigurazione surrealista-pop, in cui Barbie diventa oggetto di culto per una bambina dagli occhi sognanti. Una vera presenza celestiale, con tanto di aura luminosa attorno e braccia aperte alla redenzione.
Questa rivisitazione della Barbie incanala quindi due componenti storiche della bambola: la funzione religiosa e quella proiettiva del bambino nell’età adulta. Ryden rappresenta così un graduale percorso di acquisizione consapevole del bambino, che da una concezione dell’esistente più fantasiosa e surreale verte verso qualcosa di più materialista, carnale.
L’infanzia è certamente il riferimento immediato per gli artisti che indagano il mondo delle bambole. Tuttavia c’è sempre una spinta sotterranea che tende all’età adulta. Per questo motivo il fotografo parigino Valentin Perrin sceglie di mescere nei suoi scatti infanzia e maturità, ma anche maschile e femminile in un exploit androgino, così che la bambola non debba necessariamente essere associata a un pubblico femminile.
I modelli e le modelle da lui scelti sono amici e conoscenti. Persone con cui creare una narrazione molto intima e confidenziale, così da lasciare trasparire una purezza narrativa priva di macchinazioni e artifici. Tutto, nei loro ritratti, dall’abbigliamento, alle pose scelte, fino al trucco e alla location rimandano a un’atmosfera carrolliana, imprigionata tra sogno e realtà.
È come se non sapessero quale sia la loro reale collocazione, come se decidessero di stare a metà, in una realtà che li affascina ma non comprendono. La loro è quindi una personificazione simbolica della bambola, apparentemente così umana, ma in realtà inespressiva nel suo involucro materico.
Perché la bambola sta lì, dove scegli di metterla, con i suoi occhi porcini rivolti a un orizzonte non definito. Sembra che ti osservi, ma al tempo stesso guardi oltre. Come il gioco di sguardi macchinato da Bill Skarsgård, l’attore interprete di It nel film di Andy Muschietti, che dalla fessura delle fogne, con un occhio guarda Georgie e con l’altro lo spettatore.
Al tempo stesso i modelli di Perrin comunicano con l’obiettivo e cercano lo sguardo del loro creatore. I loro occhi sono quelli delle bambole che impersonano, ma velati da una tristezza e una malinconia che le bambole non potranno mai comprendere. E così si crea un divario tra oggetto e umano, tra sogno e realtà.
Io converso talvolta con gli uomini come la bambina con la sua bambola. Ella sa molto bene che la bambola non l’ascolta, ma si procura, con una simpatica auto-suggestione cosciente, la gioia della conversazione.
Arthur Schopenhauer
La bambola come strumento inconscio di apprendimento nel gioco infantile
Non bisogna però dimenticare che dietro quell’apparente noncuranza, freddezza e immobilità della bambola, c’è la capacità di creare un gioco. E quando nel gioco si intrecciano creazione artistica e omaggio citazionista, nasce una nuova forma di intrattenimento ludico che mira all’amore per l’arte. Si tratta di una linea di giochi disegnati da artisti famosi o che ne omaggiano la figura. Dal cavallino creato da Keith Haring al bambolotto che riproduce Picasso o Leonardo Da Vinci.
L’obiettivo è raccontare una storia vera, vissuta, esperita. Trasmettere il messaggio dai bambini ai genitori. I bambini non sanno da chi è stato creato il gioco con cui stanno giocando, ma intanto lo assorbono, come sottolinea il critico d’arte Philippe Daverio, e un giorno se ne ricorderanno, anche per via inconscia.
Il gioco è quindi l’anima che la bambola offre al bambino, non potendo donare nient’altro di sé se non il suo corpo. La vita nasce quindi dall’interazione complice tra bambino e giocattolo, in uno scambio che non ricerca un rapporto bidirezionale. È la fantasia del bambino che dona vita alla bambola. Senza di lui, rimane inerme.
Ma tu non puoi crescere — replicò la Fata.
– Perché?
– Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono burattini.
Carlo Collodi (Pinocchio)
Tale prospettiva si riallaccia al pensiero filosofico di Bruno Munari per cui la creatività si deve riscoprire nell’ingenua voglia di sperimentare di un bambino. Colui che si interroga su ciò che lo circonda, ma con uno sguardo depurato dalle complicazioni dell’età adulta. Così il bambino ha l’incredibile capacità di semplificare laddove tutti sembrano solo complicare l’esistente. Come afferma Munari:
Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare.
Epilogo
La bambola più bella è quella che tratti con i guanti, che usi di meno per non rovinarla, lasciandola impreziosire su una mensola o in una teca di vetro. Ma poi arriva la polvere e costruisce uno strato sempre più spesso, come i momenti da bambina che abbandonano la memoria e offrono spazio ai nuovi ricordi.
Così la bambola sembra vivere in un limbo transitorio, in cui la sua semplicità è sufficiente per riempire i momenti di gioco. Ma poi quella funzionalità diventa marginale, periferica e la quotidianità accoglie nuove necessità. Della bambola rimane solo l’eterna bellezza da rimirare dietro una teca di vetro, con la paura di toccare quel simbolo dell’infanzia, che potrebbe infrangersi da un momento all’altro, lasciando evaporare tutti i suoi ricordi.
E può far paura, con quello sguardo inespressivo che sembra non comunicare se non alla persona con cui ha condiviso momenti passati. Può far paura, in quell’angolo di stanza, in quella notte, dove il familiare diventa estraneo. E così nasce un immaginario orrorifico che si apre alle più intricate ramificazioni.
Ma il terrore è solamente quello di separarci da qualcosa che ci rappresenta, o almeno rappresenta quella parte di noi archiviata nel cassetto dei ricordi. È qualcosa a cui teniamo, che non possiamo perdere o rompere così come quella bambola, simbolo, feticcio della nostra esistenza. Lì, dietro la sua teca di vetro, perfetta e immutabile come il primo giorno.