Una questione di spazialità sta in apertura a Permafrost: la scelta tra un verticale e un orizzontale. Il verticale ha la perpendicolarità di un andamento saliscendi, intenso:
Alla fine scopri che il limite si lascia vivere, verticale come non mai.
È la spazialità in cui si muove Permafrost, tra alti e bassi disposti su un limite di vita e di morte. A questo si incrocia l’orizzontale, che è lo spazio di azione della vita degli altri, è la prevedibilità della retta e il sistema di sicurezza dei farmaci. Evitano gli scossoni. Evitano la morte. E quindi evitano la vita, consentendola. «La vita appartiene agli altri, l’ha sempre fatto». A questo sistema orizzontale sembra abbiano aderito tutti coloro che gravitano intorno alla protagonista di Permafrost: «mamma prende le medicine, papà prende le medicine, mia sorella all’inizio no, poi sì, è diventata grande e l’ha capito». Partecipi di un benessere conformista, ma privo di increspature solo sullo strato più superficiale e provvisorio .
Scrivere ora della prima prova prosastica della poetessa catalana Eva Baltasar impaccia, perché si è già detto tanto, forse tutto, ma è un tentativo di dire, ri-dire, in parte accostandosi, in parte provando a integrare l’originalità che ogni sguardo diverso contiene. Permafrost, nell’efficace traduzione italiana di Amaranta Sbardella, è stato pubblicato in Italia da Edizioni Nottetempo una manciata di mesi fa. Un romanzo o un racconto lungo la cui prosa porta in sé l’assertività in definitiva dell’aforisma e il secondo strato sensuale della poesia, fuse in una narrazione che procede per squarci monologanti e ricordi che assediano lo scorrere del tempo.
La protagonista di Permafrost è un Io, una voce in prima persona dai tratti corporei ben evidenti ma anonima. Pur rivolgendosi a se stessa per quasi l’intera durata della narrazione, il suo nome non fa mai capolino, neppure negli stentati dialoghi con la madre, nelle telefonate con la sorella o nelle scopate con le amanti. Anonimato di labile e indeterminata identità, al punto da renderla a tratti una grande voce sul mondo, sulle vite degli altri che si muovono e avanzano. Commentatrice, osservatrice mai del tutto partecipe: narratrice. Chi è la protagonista? Una lesbica con pulsioni suicida? Una zia dal cuore infine intenerito? Forse più semplicemente non è se non pura indefinitezza che si fa sguardo dritto sul contemporaneo urbano europeo, ce lo racconta nel suo profilo più critico ed estremo. La protagonista, il cui tono e la cui condotta tanto ricordano un altro recente romanzo metropolitano che è Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh (Feltrinelli, 2019), ha studiato Arte in rinuncia a Belle Arti per tossica influenza materna, vuole la libertà ma non sa bene cosa farsene, fa la ragazza alla pari ma poi scappa – non dopo aver avuto sadici pensieri sui bambini – non trova un lavoro e nemmeno lo vuole, ha tante amanti ma con nessuna si lega, viaggia tra città europee, mangia cinese e si lamenta. E nel frattempo aspetta. La morte, che non arriva, e che forse neppure vuole. Permafrost sembra proprio il figlio procreato da una certa nostra contemporaneità, così ubriacata dal sogno, dalla possibilità e dal diritto tramutato in dovere di felicità da condannarci alla sua impossibilità, riassunta nell’incerta certezza post lauream che «a ventitré anni credi che sia troppo tardi per tutto».
Ma non è solo questo. Permafrost ha tutte le carte in regola per essere una farsa nella farsa, che gioca con la verità per dire qualcosa di più di una singolarità. La finzione è impressa già nella genesi del libro, come ha raccontato l’autrice in un’intervista al programma Fahrenheit di Radio 3: Baltasar aveva ricevuto come compito dalla propria psicologa di trascrivere le proprie memorie, per darne una struttura ordinata e formale. Ma di fronte alla propria narrazione nella donna è scaturita la noia, e dalla noia piccole bugie; bugia su bugia si è delineata una voce singolare. Ecco, la somma di tutte queste piccole bugie è Permafrost.
La prima bugia è il suicidio. Per tutto il libro, la voce narrante lo vagheggia e lo pianifica, a volte lo intenta, magari tagliandosi le vene con un’innocua lametta incappucciata, magari confidando nella malignità mortifera di qualche «neo-meteora pieno di remore nere indubbiamente cancerose» . Si soggioga al suicidio, senza resa. Il pensiero della fine, l’accerchiarlo in modo ossessivo, è il rimedio, è il bisogno necessario di cinismo per sopportare e legarsi alla vita. Più che un libro sul suicidio, Permafrost sembra un libro sulla vita e sulla commedia della morte. Ci sono intere pagine fatte da ironici inventari di impulsi di morte devirilizzati; un tiro di sigaretta, la disobbedienza alla rigidità della costrizione della grigia routine metropolitana, «perché, in fondo, la libertà di morte è uno slogan molto bello e io adoro gli slogan».
C’è quindi il rassicurante richiamo della morte unito a uno strato di ghiaccio che protegge e anestetizza. Ma la piatta è apparente, il permafrost è un’altra bugia. Sotto la maschera di lesbica disillusa e sufficiente si mimetizza di nuovo un’altra voce, di ritmi diversi, tutta in accelerazione. Fraseggi solidi e potenti, puntati come missili contro il lettore:
Ti saluta la mietitrice dalle mani irsute e la schiena resistente, io con un grumo di sangue in testa, il naso ricolmo di rossi ragni palpitanti e il mio futuro come un cranio che calpesto uccidendo stoppie.
O ancora
Adoro la carne rossa in generale, sono una grande amante delle diammine cadaverina e putrescina. Gli amminoacidi in decomposizione, che grande fonte di vita! […] Il pollo cinese è cento per cento ruspante, è stato allevato nella vasca di una bettola sovraffollata di immigrati a base di confezione di riso fritto. Non importa che ci creda, stanotte mia sorella si berrebbe qualunque cosa. Una stoccata all’amor proprio causa una ferita profonda ma non mortale, un buco nero capace di digerire frammenti di morte assieme al ricordo.
Sono passaggi che tradiscono la permanenza etimologica del libro (permafrost è un composto di perma(nent) «permanente» e frost «gelato»), il cui fondo spara rabbia in faccia come aria compressa, contro le molte ristrettezze omologanti e categoriche della società.
La permanenza è infine vinta anche da sentimenti di segno positivo e innocente, come l’affetto verso la piccola nipote affetta da una cecità, anche quella momentanea. La crepa si insinua, il ghiaccio si incrina ma a concluderne lo scioglimento sono solo le sviste della vita, come la trasferibilità della morte:
«Se c’è qualcosa in cui proprio credo, è il caso».
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