amicizia

L’amica

Si erano perse e poi si erano ritrovate. Si erano di nuovo perse, si erano di nuovo ritrovate. Nel frattempo, negli intervalli in cui avevano smesso di vedersi e di scriversi e di fare qualsiasi cosa insieme, gli anni erano passati. Eppure, l’impressione che avevano ogni volta che si rivedevano era quella che non fosse passato un solo giorno. In fondo, non si erano mai davvero perse. Sorridevano sedute davanti ai loro caffè al tavolino di un bar, pensando a quanto fosse bello quel ritmo irregolare, quella linea che faceva mille giri e poi le portava sempre a ritrovarsi, senza rancore e senza imbarazzo. È quello che non si può fare nelle relazioni amorose, dove la linea è una e retta e arriva dritta fino al punto in cui non ci si saluta per strada nemmeno con un gesto della mano.

«Ora ti asciughi la faccia, ti rimetti il mascara, ti infili quelle cazzo di scarpe e andiamo a ballare. E sei bella. Ricordati che sei bella».

La gente le guardava senza nascondere la curiosità. Avevano appoggiato i bicchieri sui tavolini, avevano interrotto le conversazioni, tutti gli occhi si erano girati verso di loro con finta discrezione.
A lei non importava niente, assolutamente niente. Che guardassero pure, che si divertissero. Loro si sarebbero divertite, di questo ne era sicura. Nonostante tutto. Nonostante lui. Quel pezzo di merda.

«Io non ce la faccio» mugugnava ancora, seduta sulla panchina del parco davanti alla discoteca in una notte ancora tiepida di inizio settembre. Si teneva la testa fra le mani, e più l’amica urlava, più lei urlava, più entrambe urlavano.

L’aveva visto, era lui e ne era stata sicura. Talmente sicura che era entrata nella pizzeria dove l’aveva visto, attraverso la vetrata, seduto con un’altra mentre le teneva la mano. Un classico. Banale. Cliché. Il problema era che non se lo aspettava. Gli si era parata davanti, aveva iniziato a insultarlo, un cameriere le aveva detto di stare calma e lei si era agitata ancora di più. Aveva guardato la sua faccia, la sua bella faccia, la sua bella faccia di cazzo e non aveva saputo cosa fare. Cosa avrebbe potuto fare? Prenderlo a pugni e riempirlo di lividi? Ammazzarlo con un coltello? Lanciargli un bicchiere addosso? Non c’era nulla che potesse fare.
L’amica l’aveva trascinata via di peso dal locale e l’aveva fatta camminare mentre nella mano destra stringeva la pelle delle scarpe col tacco troppo alto che le aveva fatto togliere prevedendo la catastrofe.

«Tu sei bella. Sei più bella di lei. E comunque, non è questo il problema. È lui che è uno stronzo, e sai una cosa? Non ti merita, neanche lontanamente. Quindi ora tu ti metti queste scarpe e andiamo a ballare, e balliamo fino a farci scoppiare il cuore, e non pensiamo più a quel pezzo di merda, hai capito?»

«Ma perché? Perché? Ti giuro che non  me lo aspettavo, non me lo sarei mai aspettata».

Un paio di uomini con le birre in mano passavano e le guardavano con curiosità e un sorrisetto sulle labbra rivolto a quelle gonne un po’ troppo corte, a quei tacchi un po’ troppo alti e a quel tono un po’ troppo esagerato. Sorridevano lascivi alla loro evidente giovane età.

«Cosa avete da guardare?!»

Si sa che le leonesse, quando devono difendere i loro cuccioli, diventano tre volte più pericolose dei leoni. Evidentemente è una cosa insita nell’animo femminile. Lei ruggiva e gli uomini sparivano, ed era un bene, avevano già fatto abbastanza danni semplicemente esistendo sulla faccia della terra. O almeno, era questo quello che avevano pensato entrambe in quel momento.

Vedi, avrebbe voluto dirle, cosa ce ne facciamo degli uomini? Io ho te e tu hai me, e io non ti farei mai del male. Ci bastiamo, ci bastiamo da sole, non abbiamo bisogno di loro. Credeva e allo stesso tempo non credeva alle sue parole. Certo che gli uomini erano cattivi, certo che facevano del male, ma loro non erano diverse. Certo che si potevano bastare da sole, ma non ne avevano voglia, non era quello che volevano.

Mentre le infilava la décolleté rossa e continuava a urlare frasi di incoraggiamento sapeva già come sarebbe andata a finire; si sarebbe sbronzata, avrebbe rimorchiato qualcuno, ci sarebbe finita a letto, il mattino dopo si sarebbe svegliata e tutto sarebbe tornato come prima, se non peggio. Una merda.

L’aveva aiutata ad alzarsi, le aveva passato un braccio intorno alle spalle e insieme, barcollanti, si erano dirette verso l’entrata della discoteca.

“Che sceme” avrebbe detto qualcuno.

“Che oche”.

“Ma quelle sono già ubriache prima ancora di entrare”.

«Vaffanculo» aveva detto lei mentre camminava.

«Fanculo».

Erano sicure, all’una del mattino, con le lacrime agli occhi, che l’amicizia dovesse essere anche quello.


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