Oggi come oggi basta accendere la tv e sintonizzarsi su un notiziario per assistere alle riprese di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. La contestazione è all’ordine del giorno, le masse scendono in piazza per la tutela dei propri diritti e per fare sentire la voce del popolo su tematiche d’attualità in grado di mutare significativamente lo status quo. Negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, si sono moltiplicati a dismisura gli episodi violenti e di abuso di potere perpetrati dalla polizia, in particolare nei confronti di appartenenti alla comunità afroamericana.
Da un evento simile realmente accaduto – l’uccisione di un ragazzo nella periferia parigina – trae ispirazione L’odio (Le Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz, pellicola di culto vincitrice del Premio per la miglior regia al Festival di Cannes nel 1995.
Il razzismo, la rabbia e la violenza
Che la si chiami sobborgo, hinterland o banlieue, la periferia costituisce un ambiente a sé stante rispetto alla città. Lo sfarzo del centro, con i negozi e le insegne, con i monumenti e le cattedrali, cede il passo a palazzoni fatiscenti, quartieri cupi e degradati, strade pericolose da percorrere a qualsiasi ora. Anche il linguaggio parlato è tutt’altra cosa: nella versione originale, infatti, i protagonisti utilizzano per dialogare il verlan, gergo ottenuto mediante l’inversione sillabica. Il lungometraggio del regista parigino presenta una metropoli priva di colori, caratterizzata dall’utilizzo esclusivo di un bianco e nero che ricorda da vicino gli esiti del neorealismo e della prima stagione filmica di Pier Paolo Pasolini (Accattone è il riferimento più immediato, considerate l’estrazione sociale dei personaggi e la location adottata).
Tra la luminosità accecante del giorno e l’impenetrabile buio della notte si muovono i tre protagonisti: Vinz (Vincent Cassel), di famiglia ebraica, è un ragazzo violento e pieno di rancore nei confronti della polizia; Hubert è un aspirante pugile africano che è costretto a spacciare droga per aiutare economicamente la famiglia; Said, originario del Maghreb, vive per espedienti, alla giornata, senza un lavoro fisso e al limite della legalità.
Gli scontri mostrati all’inizio del film (fotogrammi di taglio documentaristico di rappresaglie reali) sono stati generati dal brutale pestaggio di Abdel, un giovane immigrato, durante dei controlli da parte delle forze dell’ordine. L’odio per l’autorità costituisce una costante della pellicola, presentata in tutte le sue possibili implicazioni e sfaccettature: in particolare, i tre ragazzi si sentono vessati razzisticamente a causa delle loro etnie, come se fossero cittadini di “serie B” che nessuno è disposto a tutelare.
«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani»
A complicare ulteriormente un quadro già drammatico e all’insegna del degrado è un ritrovamento accidentale. Vinz, infatti, viene in possesso di una pistola, persa da un agente durante i tafferugli. L’intento del giovane è molto chiaro: qualora il loro amico Abdel dovesse morire in ospedale per le percosse ricevute, con quell’arma egli ucciderebbe un poliziotto per pareggiare i conti: dal Codice di Hammurabi agli anni Novanta, la legge del taglione è ancora vigente. Iconica, a tal proposito, la scena di Cassel allo specchio, con un’evidente citazione al Travis Bickle di Taxi Driver.
L’odio è una storia di di isolamento e di oppressione: nessuno dei tre ragazzi è un vero criminale, è la società ad averli resi cani rabbiosi senza un padrone. Non è Vinz a premere il grilletto per vendicare la morte di Abdel, non è lui a uccidere uno dei naziskin che li avevano aggrediti, non è lui a sporcarsi le mani di sangue innocente. La lezione di Hubert risuona come un monito: “Se solo avessi studiato sapresti che l’odio chiama l’odio”. E, nella scena finale, questa massima trova la sua concreta espressione: chiunque premerà per primo il grilletto, il ragazzo africano o il poliziotto, davanti agli occhi sbarrati di Said non farà altro che alimentare la rabbia e il disprezzo. Non sarà certamente un’altra morte a vendicare quella, tanto accidentale quanto beffarda, di Vinz.
Ad aprire e chiudere la pellicola, chiudendo emblematicamente il cerchio, è la voce narrante di Hubert:
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: «Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.
Ripetuto come un mantra, questo tentativo di autoconvincimento è mera illusione: tutto sta crollando, la società sprofonda in una spirale di violenza e corruzione, il giorno del giudizio è ormai prossimo. Fino a qui tutto bene? No, non direi.