L’innovatrice: l’industria del nostro secolo (parte I)

Nel secolo scorso gli economisti si sono interessati più alle aziende ottimizzatrici che alle aziende innovatrici.  Solo le prime infatti danno per scontato che le competenze tecnologiche e i prezzi di mercato siano fissi, cercando così di massimizzare i profitti sulla base dei vincoli. L’industria innovatrice, al contrario, vuole modificare i vincoli per ottenere prodotti di qualità dal valore maggiore e dal costo minore. Industrie di questo tipo intraprendono perciò non una “ottimizzazione limitata”, ma una “trasformazione storica”.

Marshall in Principles of Economics pone al centro della sua analisi del sistema economico la teoria dell’impresa, dedicando notevole spazio all’impresa innovatrice. In Industry and Trade ammette che nei decenni precedenti la grande impresa era diventata il tipo dominante nei paesi all’avanguardia come USA e Germania. Con la consapevolezza però che esiste un limite alla crescita di queste imprese. Alla morte del primo imprenditore, l’azienda dovrà passare necessariamente alla generazione futura che potrà non lavorare quanto la prima. A tal punto che  la terza generazione potrebbe causare il fallimento della stessa.

Schumpeter si interessa alla figura dell’imprenditore innovativo che, “combinando in modo nuovo” le risorse produttive, sia in grado di spezzare quel flusso circolare dell’economia che sembrava condizionato da circostanze invariabili. L’imprenditorialità permette di superare le imprese ottimizzatrici e guidare lo sviluppo economico. E in Teoria dello sviluppo economico, come Marshall, riteneva che l’innovazione fosse frutto di una persona straordinaria, dalla capacità di produrre una “distruzione creatrice”. Ciò cambia quando scrive Capitalismo, socialismo e democrazia. Egli inizia a vedere il progresso come un processo di sistematizzazione e razionalizzazione della ricerca e del management, essendo portato avanti da una squadra di specialisti qualificati.

Edith Penrose, in The Theory of the growth of the firm, definisce la grande impresa come un’organizzazione che amministra una serie di risorse umane e materiali. Ogni membro della squadra di impresa apprende come utilizzare meglio le risorse di cui dispone, sfruttando opportunità produttive che le altre imprese non hanno (non avendo accumulato esperienza). Gli investimenti complementari interni e l’utilizzo di servizi produttivi accumulati con l’apprendimento, permettono di superare quel limite manageriale che nelle imprese ottimizzatrici era la causa dell’aumento dei costi.

Wenerfelt definisce le risorse come beni tangibili o intangibili, legati permanentemente all’impresa, individuandone forza e debolezza. Le risorse possono essere input non solo del processo di produzione, ma di innovazione stesso. Tuttavia, le risorse sono difficilmente produttive da sole, ma necessitano di competenze capaci di gestirle.

Penrose è divenuto così, nelle business school, la base teorica per l’impresa che si basa sulle risorse, concentrandosi sul ruolo delle risorse di valore che un’impresa ha e che le permettono di distinguersi dalle altre (unica lacuna è la mancata definizione delle motivazioni per cui un’azienda accumuli risorse rare che altre aziende non riescono ad avere).

Nelson e Winter hanno poi sviluppato una teoria della persistenza della grande impresa industriale basata sulle capacità organizzative, caratterizzate da conoscenze tacite e radicate in routine organizzative, contribuendo così ad aggiungere una dimensione cumulativa alla teoria dell’impresa. Anche Kogut e Zander sostengono che le imprese siano organizzazione da una conoscenza sociale riguardante il coordinamento e l’apprendimento.

Teece, Pisano e Shuen affermano che la capacità dinamica sia l’abilità di integrare, costruire e riconfigurare competenze interne ed esterne per affrontare un contesto in rapido cambiamento. I processi organizzativi trasformano le capacità, mentre le dotazioni determinano il solo vantaggio competitivo. Pur affermando che i processi di apprendimento siano intrinsecamente collettivi, la loro visione manca di un aspetto sociale.

Bisogna infatti analizzare quelle condizioni che permettono un controllo strategico tale per cui l’impresa cresca. Diventa fondamentale per l’analisi un focus sull’accumulazione e la trasformazione delle capacità all’interno di un’azienda. Questo in forma di fattore umano, impegno finanziario, integrazione organizzativa, divisione del lavoro e base delle competenze.

Un’impresa innovativa ha bisogno che chi detenga il controllo strategico sia in grado di riconoscere la forza o la debolezza concorrenziale della base di competenze attuali dell’impresa e di individuare i cambiamenti necessari affinché questa possa rispondere in modo innovativo alle sfide della concorrenza.

Marshall afferma che il limite alla crescita dell’impresa sta nella difficoltà di sostituire il proprietario/imprenditore originario. Tuttavia, in Industry and Trade (opera che scrisse proprio durante la rivoluzione manageriale) non afferma che la soluzione risiede nella scissione tra proprietà e controllo strategico. Nella metà del Novecento, in USA si assiste ad una vera e propria rivoluzione nell’acciaio, nelle raffinerie, nei settori di carni e tabacco ed energia elettrica. Negli anni Ottanta Wall Street organizza la fusione delle aziende, introducendo le operazioni divenute famose poi come IPO (Initial Public Offering) per permettere ai proprietari/imprenditori di poter incassare le proprie quote di controllo e venire sostituiti da manager stipendiati.

Questa separazione fra proprietà e controllo costituisce un grande incentivo, come ad esempio l’incremento dell’istruzione con la creazione del primo corso di laurea in amministrazione aziendale ad Harvard. Le grandi imprese tendono a diversificarsi in nuovi rami commerciali, avendo più risorse per nuovi investimenti, fra cui quelli in R-S, per entrare anche nel mercato dei prodotti (vista come ulteriore sfida manageriale). Hanno più risorse anche per la costruzione di infrastrutture per il trasporto e le comunicazioni, con la possibilità di inserirsi nel mercato di massa e la necessità quindi di investimenti complementari. Ad esempio, il personale addetto alle vendite e alla pubblicità. Alla fine del XIX secolo assistiamo all’investimento tripartito: produzione, distribuzione e management (Chandler).

industria

Netta segmentazione fra manager stipendiati e lavoratori pagati quindi negli USA. In Gran Bretagna nascono invece i bacini locali di lavoro specializzato che creano disponibilità di manodopera qualificata. Le imprese statunitensi iniziano ad integrare specialisti tecnici nell’organizzazione manageriale. Fanno così emergere nel sistema americano di manifattura una caratteristica fondamentale: la produzione in massa di parti standardizzate. Secondo quanto affermato da Houshell, dovranno passare ancora 100 anni prima che la produzione di massa diventi realtà.

Con la crisi degli anni Trenta le posizioni di lavoro stabili scompaiono. Nasce il sindacalismo industriale, che ha come obiettivo la tutela del lavoro a lungo termine, l’anzianità, salari più alti e il mantenimento in caso di disoccupazione. Solo in cambio di queste garanzie si poteva accettare un controllo manageriale unilaterale sull’organizzazione del lavoro e sul cambiamento tecnologico. La debolezza di questo modello era però che gli operai non erano integrati nel processo di apprendimento organizzativo dell’impresa.

I giapponesi dimostrarono, infatti, che era possibile sviluppare contemporaneamente l’organizzazione manageriale e le qualifiche dei lavoratori di fabbrica. Vediamo come nella seconda parte dell’articolo.

 

FONTI

Chandler, Amatori, Hikino, (eds.) (1997), Big Business and the Wealth of Nations, Cambridge University Press, Cambridge.

Marshall (1919), Industry and Trade, Macmillan, London.

Nelson (1991), Why Do Firms Differ, and How Does It Matter?, in “Strategic Management Journal”, 12, Special Issue, pp. 61-74.

Schumpeter (1934), The Theory of Economic Development, Harvard University Press, Cambridge (ma).

Teece, Pisano, Shuen (1997), Dynamic Capabilities and Strategic Management, in “Strategic Management Journal”, 18 (7), pp. 509-33.

 

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