Perché abbiamo bisogno dell’anonimato online

A fine ottobre si è tornati a parlare di anonimato online. Il deputato Luigi Marattin (Italia Viva), infatti, ha dichiarato di voler lavorare a una legge che lo vieti, al fine di arginare l’odio e la disinformazione dilaganti. L’idea non è nuova ed è accarezzata da molti. La possibilità di postare senza metterci la faccia viene vista come un incentivo all’aggressività e a comportamenti genericamente scorretti. Dunque, meglio abolire l’anonimato: chi non ha nulla da nascondere non avrebbe nulla da temere. O no?

Profili falsi, troll, bot

Che ci sia chi ci marcia è innegabile. A tutti noi è capitato di leggere commenti o post particolarmente aggressivi o offensivi, per poi scorrere il profilo del loro autore e trovarlo per lo più vuoto o ripetitivo nei magri contenuti. Può trattarsi di persone che hanno impostazioni di privacy stringenti. Oppure piuttosto ci troviamo di fronte a profili falsi, creati magari proprio per portare avanti polemiche e falsità. Dietro, chiaramente, ci sono persone vere. Il falso nome rappresenta però solo uno scudo superficiale. In realtà, tramite indirizzo IP è possibile risalire al dispositivo utilizzato da quell’utente, e quindi teoricamente anche al soggetto reale.

A mancare di un soggetto reale alle proprie spalle è invece il bot. I bot, infatti, sono programmi in grado di effettuare in rete quelle azioni che ci aspetteremmo fatte da umani, come l’invio di messaggi, ad esempio. Vengono programmati a tal fine e le svolgono automaticamente.

Infine possiamo incappare nei troll, cioè quei profili – veri o falsi che siano – che intraprendono discorsi polemici, fuori tema o del tutto insensati, al fine di infastidire o semplicemente disturbare gli altri utenti.

Empatia e aggressività

In questo quadro, per alcuni metterci la faccia sarebbe la soluzione: in un tête-à-tête “analogico” non ci comporteremmo così, è piuttosto l’avvento del digitale ad averci “imbruttiti”. Ma è davvero così?

Sicuramente nei confronti virtuali la distanza materiale dall’interlocutore gioca il suo ruolo. In quelli dal vivo calibriamo la nostra comunicazione sulla base di moltissime informazioni contestuali. Possono venirci, ad esempio, dal guardare l’altro negli occhi, dal sentire il tono della sua voce, e così via. In questo senso, possiamo dire che si instaura un rapporto empatico, nella misura in cui ci si mette in relazione all’altro, lo si considera. Insomma, siamo calati nella realtà, nel vivo. Non è come parlare da soli davanti allo specchio – o allo schermo.

Tuttavia un altro fattore che si rivela centrale è l’assenza – o la scarsa entità – di provvedimenti e conseguenze per un eventuale comportamento aggressivo. Ci sentiamo come se nessuno potesse vederci, come se fossimo solo aggressore e vittima. E, ammesso che qualcuno ci veda, in fondo cosa può succederci? Sono solo parole, un grumo di pixel, e prima che qualcuno le controlli avranno già raggiunto il loro obiettivo. Poi si può sempre giocare la carta della libertà di espressione, o fare un mea culpa. Essere sospesi dal social temporaneamente, nei casi più gravi essere querelati (ma dovremmo averla fatta grossa).

Risulta, così, difficile pensare all’abolizione dell’anonimato online come ad una panacea di tutti i mali.

Protezione

Esiste, tra l’altro, anche il rovescio della medaglia. L’anonimato che per alcuni è un demone, per altri è una grande opportunità.

Basti pensare a quando su internet cerchiamo informazioni su argomenti tabù, molto personali, imbarazzanti o in qualche altro modo difficili. Pensiamo a una persona che ha deciso di intraprendere un percorso di transizione per cambiare sesso, e vuole informarsi su come funziona. Pensiamo alla scarsa informazione che c’è in materia di contraccezione e aborto, e al desiderio di saperne di più che questa mancanza genera. Tutte le nostre ricerche sarebbero sistematicamente correlate ai nostri dati anagrafici completi, dando vita ad una schedatura anche più profonda della profilazione di cui siamo già oggetti.

Ci sono poi i cosiddetti wistleblower, cioè coloro che segnalano reati, illeciti, irregolarità. La loro attività è tanto importante quanto pericolosa, e necessita di questa tutela. L’assenza di anonimato li metterebbe in forte rischio, vista la possibilità di ritorsioni. Nel nostro Paese il triste esempio per eccellenza è forse quello della mafia.

Infine, non vanno dimenticati tutti coloro che sono in dissenso rispetto al governo del proprio Stato. Si tratta soprattutto del caso di regimi autoritari, che bollano i propri detrattori come terroristi. Così, è solo sotto mentite spoglie che si può continuare la battaglia per la democrazia e la libertà.

L’utopistica pistola per soli cattivi

Come abbiamo visto, l’abolizione dell’anonimato online porta con sé la rinuncia a molta parte della privacy dei cittadini. La libertà personale sarebbe ostaggio dello Stato, figurando già così una sorta di Grande Fratello. Per di più, di questo Stato dovremmo poter escludere ogni possibilità di corruzione, che altrimenti metterebbe a rischio una quantità immensa di dati sensibili.

Va citato l’informatico Edward Snowden, che in proposito, ancora quattro anni fa, disse:

Alcuni potrebbero dire “Non mi interessa se violano la mia privacy perché io non ho nulla da nascondere.” […] Affermare che non si è interessati al diritto alla privacy perché non si ha nulla da nascondere è come dire che non si è interessati alla libertà di parola perché non si ha nulla da dire.

In conclusione, questa proposta potrebbe risultare valida solo in un universo utopistico – dove, tuttavia, non esisterebbero neanche i problemi che ce la fanno discutere. Il quadro che gli esperti informatici delineano è sia di inapplicabilità a livello tecnico, sia di insensatezza. Per sanare un problema, ne genereremmo di nuovi e dannosi. Purtroppo, una pistola che spari solo ai cattivi e risparmi i buoni non esiste.

 



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