Il giardino degli innamorati

Tre baci sul fondo della schiena, sulla curva tra il sedere e la fine della spina dorsale, poco sotto le fossette delle natiche. La sua lingua calda nella bocca di lei, una fame irrefrenabile, le unghie piantate nella carne della schiena, intrecci scoordinati di gambe e braccia. Quella voce avrebbe continuato a esistere nella sua testa, un’eco lontana che non avrebbe dimenticato, insieme all’odore dietro ai lobi delle orecchie.

«Mi piaci.»

Un lamento di piacere, un gemito non trattenuto. Avevano fatto l’amore fino allo sfinimento, tutto qui. E gli era piaciuto. E si erano piaciuti. E a tutto quello che sarebbe venuto dopo non ci avevano pensato.

Lui aspetta immobile, seduto su una panchina di marmo all’ombra. Con un piede gioca sovrappensiero con i sassolini del selciato, disegnando forme astratte, linee morbide che sollevano leggermente una polvere grigia. Il sole è caldo; è il sole delle tre e un quarto di un pomeriggio di piena estate, alto e perpendicolare. I raggi attraversano i rami degli alberi e le grandi foglie frastagliate delle palme proiettando a terra ombre in continuo movimento.
Si è seduto sulla panchina più nascosta e lontana, in un angolo di quel parco fatto di vialetti sottili e quasi invisibili, di intimi pergolati e di statue di pietra – una vestale, una Atena, morbide, drappeggiate, leggermente coperte di muschio e muffa, annerite dal tempo ma ancora bellissime.
Sa che ci sono altre coppie appartate in altri angoli nascosti, i sussurri sfuggono tra i cespugli verdi punteggiati di fiori rossi, ma la discrezione regna sovrana in quel giardino; poco prima, mentre si stava dirigendo verso la panchina prescelta era passato davanti a una coppia immersa in un lunghissimo, eterno, estenuante bacio. Aveva abbassato immediatamente lo sguardo, anche se sapeva che loro neanche si erano accorti della sua presenza, ma aveva avuto il tempo di intravedere il braccio di lui intorno alla vita di lei, la mano di lei tra i capelli di lui, i due corpi avvinghiati. Erano bastati quei particolari apparentemente insignificanti per fargli salire nel petto un’ondata di desiderio e di angoscia.
Aspetta e non guarda neanche più che ore sono, lascia che il tempo scorra insieme all’acqua della fontana principale della quale sente solo lo scroscio in lontananza, senza vederla.

Il giardino degli innamorati, era così che lo chiamavano. Su quelle panchine gli amori nascevano, crescevano, e morivano. C’era il primo bacio sotto al pergolato, la scritta con la bomboletta nera sul muretto, una frase romantica e una data da non dimenticare, un anniversario, una riga tirata sopra con rabbia il giorno stesso della rottura. Due iniziali incise sul tronco di una palma, un fiore secco lasciato sulla panchina che aveva visto tutto.
Le coppie si creavano e si distruggevano, il tempo passava, le ferite venivano inflitte e rimarginate, e il giardino rimaneva sempre lì, immobile e impassibile, con lo sguardo benevolo e protettore di chi ne ha viste tante e la sa lunga. Gli alberi affondavano ancora di più le radici e di tanto in tanto venivano potati, ma erano sempre uguali, sempre centenari. I fiori sbocciavano, si aprivano e poi appassivano, ma il cartellino col nome sotto al loro rispettivo cespuglio era sempre lo stesso.

Lui continua ad aspettare. Qualche coppia che si è persa nel labirinto di vialetti e fronde giunge fino a lui, naufraghi smarriti, avvinghiati l’uno all’altro, indivisibili, inscindibili. Alcuni si scusano a mezza voce, altri ridono e tornano indietro di corsa. Una tortora bianca si posa sul selciato, si accovaccia e rimane lì immobile girando a scatti solamente la testa, gli occhi vispi e accesi, le piume morbide arruffate. Non ha paura di lui, e lui non vuole darle fastidio, la osserva da lontano anche se vorrebbe avvicinarsi e toccarla per sentire quanto è soffice, per sentire qualcosa sotto i palmi delle mani semplicemente.

Quando lei gli aveva dato l’ultimo morso sul collo, lì dove pulsava il sangue, lì all’altezza della giugulare, lui le aveva promesso che l’avrebbe aspettata, l’avrebbe aspettata sempre. In quel momento non gli era importato quanto tempo avrebbe dovuto aspettare, lui sarebbe stato lì. A lei il compito di tornare. Più di così non avrebbe potuto fare, era stata la promessa più grande che era riuscito a farle.

«L’ultima panchina sotto ai salici, al fondo del vialetto di sinistra, quello che sale leggermente, tra le felci, quello più nascosto, nel punto più alto del giardino. Ti aspetterò lì. Vieni, ti prego. Verrai, vero?»

Sulla ghiaia resta un mucchietto di piume bianche, come il gomitolo dei suoi vestiti buttati sul pavimento quella notte. Dentro di lui si apre una voragine che inghiotte tutto il giorno, tutto l’oggi, il domani e il futuro, tutta la vita che vivrà senza di lei. Non ci avevano pensato, non ci aveva pensato.
Mentre si metteva il profilattico per proteggersi dalle malattie veneree non aveva pensato a proteggersi dall’amore. Non avrebbe potuto farlo, comunque. Non avrebbe saputo come fare.

Tutto, da tutto. Ma non dall’amore.


Credits immagine: Elena Ramella

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