Ma colui che si rappresenta, come in un quadro, la grande immagine della nostra madre natura nella pienezza della sua maestà; che le legge sul volto una varietà tanto generale e costante; e là dentro vede, non se stesso solamente, ma tutto un regno, come il segno di una punta leggerissima. Quegli soltanto giudica le cose secondo la loro giusta grandezza.
Qual è la scienza fondamentale del sapere umano? Di cosa parla quella saggezza che risponde a quel vago e rischioso «conosci te stesso» impresso nel tempio di Delfi? Qual è l’oggetto dell’apprensione ultima delle cose? La nascita? La morte? Speculare sul mistero della nascita? Praticare l’arte della morte?
Seneca, Marco Aurelio e Heidegger ci hanno intimato di comprendere la fine. Esistere in un solido e cosciente “essere per la morte” che ovvi allo sbaraglio della contingenza, che esuli dalla sconfitta che la nostra coscienza subisce ogni giorno quando si arrende all’irrazionalità, alle chiacchiere, allo smarrimento, alla vaghezza moderna, alla perdita d’identità.
L’essere per la morte, per questi autori, non è una fuga in avanti. È invece la prefigurazione della propria finitudine. L’angosciata ma sincera affermazione della propria limitatezza rispetto all’essere della totalità del mondo.
Ma può essere la morte una risposta alla vita? Può essere una cosciente finitezza la soluzione al nostro tremore vitale, all’eruzione titanica ad eterna del nostro furore spirituale?
La coscienza del declino, credono alcuni, è la saggezza di sapere quando mollare, ma non rende conto dell’incanto del persistere. Neanche la nascita ne sa nulla, della continuazione, dell’esistenza in vivo, perché ogni spirito è colto autenticamente solo nella sua pulsione quotidiana, nella sua azione persistente: crescere, educarsi.
Sono questi due i principi dell’agire e del conoscere. Un agire e un conoscere che nel pensiero di Michel de Montaigne, il più grande filosofo del ‘500 francese, fanno corpo in una sola opera d’arte: la vita, in tutta la sua mobilità.
Montaigne dedica il ventiseiesimo saggio dei suoi Essais (1580, 1588, 1595), intitolato Dell’educazione dei fanciulli, a Madama Diane de Foix, Contessa de Gurson, in occasione della sua prima gravidanza.
Il saggio 26 – certamente uno dei più importanti per la comprensione del composito pensiero dell’autore e per i tratti salienti della sua biografia intellettuale – affronta il tema della crescita, e quindi della messa a punto infantile di un sistema al contempo di sopravvivenza e fruizione del mondo, che non lasci spazio nella vita del fanciullo al male e alle occasioni perdute.
La pedagogia di Montaigne ricorda per molti versi la paideia socratica, opposta, nel suo fertile scetticismo e nella sua vitale dimestichezza con la prassi, alla boriosa educazione tradizionale. Sono poi molte le questioni che ricordano l’Emile di Rousseau, le dissertazioni degli stoici e gli appelli rinascimentali alla virtù umana.
Come si dovrebbe svolgere, dunque, l’educazione del figlio della Contessa?
La premessa è che il sano sviluppo della mente e del corpo di un figlio o di un allievo è considerato da Montaigne il luogo dove s’incontra la «più grave difficoltà della scienza umana». Non si tratta di allevare un piccolo di orso o un cucciolo di cane, perché questi si prestano all’inclinazione naturale.
L’essere umano, invece, è immerso immediatamente tra usanze, opinioni e leggi che mutano o si mascherano facilmente.
Il tema dell’intrinseca trasformatività umana è molto presente negli scritti di Montaigne. Se ciò può significare cambiamento, crescita e sviluppo salvifico, si può anche dare il caso in cui il giovane, disperso nella complessità delle culture, condanni la sua vita alla contraffazione, al vizio e alle difficoltà. Il dubbio va risolto sbrigativamente nell’avviare il fanciullo «sempre alle cose migliori e più giovevoli», fuggendo lo studio degli estremi particolarismi che potrebbe portare a fraintendimenti e a danni a lungo termine.
Cosa deve assaporare, poi, il giovane, dei succosi frutti della conoscenza umana? Il minimo possibile, almeno fino ai 15/16 anni. Egli deve essere prima filosofo apprendista e poi, per tutto il resto della vita, filosofo in azione.
Ma chi dev’essere il suo maestro? Cosa vuole insegnargli della filosofia?
Montaigne raccomanda alla Contessa un istruttore intelligente e costumato, sagace e conoscitore del mondo, vocato e paziente; non un freddo topo da biblioteca, un dotto pieno di volumi sfogliati e privo di passione ed empatia. Il maestro, che intratterrà un rapporto diretto con un solo allievo, al modo dell’Ellenismo romano, dovrà saper guidare il fanciullo negli intrecci del mondo, far risolvere gli intricati problemi del mondo ad una mente vergine in modo che in essa emerga una capacità di giudizio.
È il giudizio, infatti, l’unico scopritore della verità e della ragione. Non i testi di Platone, non la saggezza di ogni tempo, nemmeno le Sacre Scritture possono fornire le risposte vere alle complesse questioni del mondo. Solo un giudizio individuale, radicalmente proprio e meditato può trovare la via di una ragione sempre oscura.
Spesso si è parlato di Montaigne come di uno scettico, ma si noti che si tratta di uno scetticismo eroico e produttivo, giacché è solo il soggetto che socraticamente non conosce – nel senso in cui non è vincolato alla lettera o alla parola di qualcuno o qualcos’altro – a potersi arrampicare sulle scivolose scogliere di una verità sempre parziale.
Il fanciullo, quindi, armato di giudizio e autocoscienza, dovrà affrontare secondo le spinte del maestro le questioni del mondo, risolvendole da sé, senza dettami e senza prescrizioni, nel modo stesso in cui Rousseau lascerà che il suo Emilio scopra da solo le conseguenze negative di un’azione avventata senza essere ostacolato da un veto o da un’idea. Socrate lasciava che fosse lo studente a parlare per primo, voleva che fosse l’anima del fanciullo a scavare il letto del fiume, che poi egli avrebbe aiutato a riempire con il flusso della verità.
Proprio per imparare a vivere nel modo più accorto e razionale, il giovane dovrà viaggiare, imparare le lingue prima delle nazioni confinanti e poi dei grandi antichi. I viaggi di Montaigne e del suo pupillo, figli della gloriosa “rinascita” umanistica, non potranno che estendersi negli spazi del mondo terreno e sulla linea del tempo già trascorso. Il fanciullo dovrà parlare con gli europei, frequentare le corti e le borgate, conoscere i “cannibali” americani. Ma anche frequentare i grandi sapienti del passato, dedicarsi alle psicologie di Annibale ed Augusto e interpretare le gesta di Temistocle e Traiano. Leggerà Tito Livio e vi leggerà cose diverse da quelle che ci ha letto ciascun altro, ogni volta che aprirà un testo antico lo rinnoverà in maniere nuove e imprevedibili.
E imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione; e non tanto dove morì Marcello, quanto perché fosse indegno del suo dovere che morisse là. Non tanto gli insegni le storie, quanto piuttosto a giudicarle.
Il fanciullo è nato in Francia? Non impari da subito il francese, avrà il tempo di capirlo e gli spazi per esercitarlo. È piuttosto necessario che nasca nel latino, dialoghi in tedesco, s’intenda con le genti di altri posti e di altre idee, di altri tempi e di altre storie.
Che impari, poi, ad essere forte coi forti, candido ed onesto. Combatta solo guerre stimolanti e vinca lotte giuste. Non tema di sporcarsi le mani. Dovrà tastare la materia del mondo e plasmarla per quanto può. Persista nelle idee, assecondi leggi giuste, ma sappia pure arrendersi, cedere alla verità, gettare le armi quando la ragione si presenta.
Non una ragione Altra e spirituale: la ragione dei popoli, della cultura, delle scienze, della morale. Per conoscerla, dovrà essere un mondano, un conoscitore di popoli, sì, ma anche delle loro istituzioni, delle loro leggi e delle norme internazionali. Sia avveduto dei ritmi del mondo, non si chiuda in un eremo e non faccia il gioco dei boriosi intellettuali da soffitta, che persuadono di aver tempo solo per altri mondi, ma non si curano del mondo più importante.
Sappia anche vivere la vita nel senso più profano, essere a suo agio negli eccessi. Non sia un noioso cortigiano senza luce, non tratti la sua salute (o l’idea che ha di essa) come una merce rara o una trottola di vetro. Che usi il suo ventre, piuttosto!
Che impegni i suoi muscoli, che conosca il sudore, la fatica, lo sforzo, ma anche l’ebbrezza, l’ubriachezza e la follia!
La Follia, elogiata dal pensiero di Erasmo, era descritta da questi come un’amante della distrazione, della dimenticanza, della sfrenatezza e persino, quando serve, della volgarità. La follia lascia che per un attimo ci si dimentichi dei complessi affari della vita. Lascia che il più grande filosofo sia il più grande saltimbanco e che il poeta sia il più greve brutto ceffo. Del resto, persino la filosofia – che è questa pratica del vivere, questa speciale cura sui che Montaigne insegnerebbe al suo fanciullo – non è autentica senza il gaudio:
Il segno più caratteristico della saggezza è un giubilo costante; la sua condizione è come quella delle cose che sono al di sopra della luna: sempre serena.
Una ragionevole ma folle serenità che commercia pure con il caos, che è a suo agio sia nei gabinetti di lettura che nelle sale d’osteria. Questa serena filosofia è sempre in azione. È il modo di agire, la prassi di vita e di governo che vengono insegnati da Aristotele ad Alessandro. Non la geometria, non le scienze esatte.
Tra i due architetti dell’aneddoto ateniese, solo il secondo è filosofo. Mentre il primo si spendeva in grandi sproloqui per convincere i votanti di ciò che avrebbe saputo costruire, l’altro si limitò semplicemente a dire «io farò ciò che lui ha detto».
Per queste ragioni non è giusto imprigionare un fanciullo in un umore melanconico, in una pseudo-cultura libresca e appariscente che lascia il lavoro della verità altrove. La maieutica della facoltà di giudizio è il compito dell’istruttore. Uno spirito torturato da decine d’ore di studio quotidiano è corrotto e appesantito, dimentico di sé e del suo scopo di agire innanzitutto.
Per il nostro ragazzo, una camera, un giardino, la tavola e il letto, la solitudine, la compagnia, il mattino e la sera, tutte le ore saranno uguali, tutti i luoghi gli serviranno di studio. Infatti la filosofia, che, in quanto formatrice degli intelletti e dei costumi, sarà la sua principale lezione, ha questa prerogativa di immischiarsi ovunque.
«Il vero specchio dei ragionamenti – conclude Montaigne – è il corso della nostra vita».
M. de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano, 2014