Dopo aver esplorato le caratteristiche e le funzioni di questo materiale nella prima parte, è bene sottolineare come, a 15 anni dalla scoperta del Grafene, permangano ancora importanti sfide da superare perché il “materiale delle meraviglie” assurga a fenomeno di massa.
Fin da subito è apparso chiaro ai ricercatori che il grafene, sebbene portatore di incredibili proprietà, avrebbe presentato problemi in fase di produzione in grandi volumi. Ciò è dovuto proprio alla sua conformazione chimico-fisica. Produrre fogli di grafene totalmente esenti da difetti è infatti estremamente costoso. Inoltre, i metodi di produzione non sono interamente cost-effective. La stessa tecnica usata da coloro che hanno scoperto il materiale nel 2004 (scotch tape technique), seppure elementare, non è riproducibile a livello di produzione industriale.
Un’altra delle principali tecniche utilizzate, l’estrazione chimica, è altrettanto semplice perché prevede lo sviluppo del grafene sulla superficie di un altro materiale, tipicamente un metallo. In questo caso i costi di produzione dipendono dal volume del materiale prodotto e dal costo della sua estrazione dal substrato metallico di supporto. Sebbene esistano tecnologie industriali brevettate atte a ridurre i costi di tale processo, esso non è esente da difetti.
Ma il problema più grave è che quando il grafene viene “esfoliato” fisicamente o chimicamente persiste il rischio di introdurre difetti nella struttura del materiale stesso. Un problema che pare difficilmente aggirabile.
Per esempio, con la tecnica chimica spesso vengono adoperati acidi atti a dissolvere il substrato e separarlo dal grafene. La possibile risultante è quella di produrre ossido di grafene talmente tanto danneggiato da aver completamente perso conducibilità elettrica.
Sostenibilità ambientale del processo produttivo
Perché il grafene produca nei settori industriali di applicazione l’impatto disruptive che sembrerebbe promettere non basta che la produzione sia cost effective. Questo è infatti un requisito necessario, ma non sufficiente. Riveste, infatti, grande importanza la sostenibilità ambientale dei processi di produzione del materiale.
Le tecniche correntemente usate per produrre il grafene utilizzano purtroppo grandi quantità di solventi chimici e sprecano molta acqua deionizzata ad alto grado di purezza. Questi inoltre demoliscono completamente il substrato metallico di supporto e contaminano il grafene con residui chimici che rendono necessario il risciacquo.
Una nuova ricerca a cura dell’Università dell’Illinois pare aver arginato il problema studiando l’utilizzo di acido carbonico per separare il grafene dal substrato metallico. La buona notizia è insita nel fatto che l’acido carbonico evapora in maniera naturale, rendendo non più necessario il lavaggio del grafene risultante dal processo. In questo modo inoltre è possibile riutilizzare il substrato metallico, il che rappresenta un gran risultato in un’ottica di scalabilità del processo produttivo.
I ricercatori sono inoltre riusciti a rimpiazzare il film di cui il grafene è rivestito durante il procedimento chimico tradizionale, e che richiede l’uso di solventi cancerogeni e tossici, con uno strato di cellulosa alimentare (utilizzata anche per il rivestimento dei farmaci in compressa).
Tossicità potenziale
Il futuro uso biologico del grafene richiede una comprensione approfondita della sua potenziale tossicità nella sua interazione con cellule e tessuti. La tossicità del grafene, e dei suoi derivati, è stata osservata e valutata attraverso studi sia in vitro che in vivo.
In uno studio condotto da un gruppo di ricercato della Brown University è emerso che il grafene è in grado di compromettere le funzionalità cellulari degli organismi viventi. I ricercatori, tramite una simulazione, hanno analizzato l’interazione tra una cellula e frammenti di grafene. Le simulazioni hanno mostrato che i frammenti, avendo bordi netti e punte, possono penetrare le pareti cellulari.
Dopo i risultati ottenuti in simulazione, il gruppo di studiosi ha condotto ulteriori esami in laboratorio per analizzare la tossicità del grafene su tessuti cellulari, dimostrando come bastino 10 micron di grafene per danneggiare le cellule. Il grafene e i suoi derivati provocano tossicità dose-dipendente negli animali e nelle cellule, provocando lesioni epatiche e renali, formazione di granuloma polmonare, ridotta vitalità cellulare e apoptosi cellulare.
È vero tuttavia, che un grande vantaggio dei nanomateriali è la possibilità di ingegnerizzarli per ottenere proprietà specifiche. L’impiego della modellazione computazionale ci potrebbe permettere di modificare questi materiali allo scopo di renderli meno tossici.
La necessità di uno standard qualitativo universalmente riconosciuto
La produzione del grafene dischiude notevoli opportunità ed offre innumerevoli potenzialità a livello di applicazioni industriali. Ciò tuttavia può rappresentare un ostacolo, perché proprio nella pletora di possibili utilizzi e nella molteplicità di tecniche produttive percorribili è insito il germe del fallimento. Un germe che si nutre della disomogeneità qualitativa del grafene prodotto con tecniche così diverse.
Ciò rischia di produrre ambiguità e di deludere le altissime aspettative create dal grafene nel mondo scientifico e industriale. Ma anche nei substrati dell’opinione pubblica più attenti alle tematiche innovative.
Al fine di risolvere tale ambiguità, il NGI (National Graphene Institute) presso l’Università di Manchester ha stretto una partnership con il NPL (National Physical Laboratory, che si occupa principalmente di unità di misura, in maniera omologa al NIST negli USA) per la definizione di un set di misure standardizzate sulla qualità strutturale del grafene. Risale a Novembre 2018 la prima pubblicazione frutto di questa partnership, Characterisation of the Structure of Graphene, orientata a informare i produttori sulle modalità di misurazione affidabile delle proprietà strutturali del materiale.
Gli scienziati sono convinti che tale standardizzazione accelererà il processo di comprensione delle potenzialità del materiale. Inoltre, a nostro avviso, poter contare su uno standard qualitativo universale accrescerà sensibilmente la capacità di assorbimento (absorptive capacity) delle aziende. Questo, lo ricordiamo, è uno dei fattori fondamentali da sviluppare per rendere un’organizzazione innovativa e capace di sfruttare il vantaggio competitivo donatole dalle tecnologie emergenti.
D’altro canto appare chiaro che fallire nello stabilire tale standard qualitativo potrebbe portare con ogni probabilità ad una cocente disfatta. Potrebbe inoltre relegare il grafene al mero utilizzo nell’ambito R&S, svilendo per chissà quanti anni le prospettive di commercializzazione di massa del “materiale del futuro”.
Un competitor pericoloso
Il grafene è un elemento sensazionale. Le sue proprietà e capacità hanno interessato finanziatori, accademici e studiosi. Tuttavia, come moltissime innovazioni, presenta dei limiti che non permettono di essere sfruttato appieno e di entrare nel mercato come si era invece inizialmente prospettato, il che richiama il concetto di imbuto dell’innovazione (innovation funnel).
Un primo problema concerne i costi di produzione, ancora troppo alti, che non permettono l’entrata nel mercato di materiali a base di grafene. Secondo ostacolo, certamente non per importanza, risiede nella “molibdenite” (un solfuro di molibdeno, MoS2, dato dalla reazione tra molibdeno e zolfo). Si tratta di un materiale che già nel 2012 ha ricevuto enormi consensi, tanto più in seguito al primo chip a base di molibdenite, realizzato dall’Istituto Federale di Tecnologia di Losanna (Epfl).
Sta infatti nascendo una corsa alla scelta dell’erede del silicio, data l’impossibilità di questo di scendere sotto la soglia dei 2-10 nanometri ( milionesimi di millimetro). Si è giunti infatti a livello di processo produttivo al limite fisico-tecnologico del silicio dettato dalla Legge di Moore.
La molibdenite, a differenza del grafene, è dotata del “band gap”, la capacità cioè di condurre o non condurre elettricità in maniera alternativa, caratteristica essenziale per il funzionamento di un moderno SoC (System on Chip). La molibdenite è inoltre più efficiente del silicio.
Uno dei settori di applicazione più interessanti del grafene, quello dei semiconduttori, non sembra dunque ancora pronto per il passaggio al grafene, a maggior ragione se si considerano i massicci investimenti, da parte di aziende di tutto il mondo, nello standard tecnologico dominante, il silicio.
Nel settore dei microprocessori si è, infatti, delineato con chiarezza un fenomeno noto come incumbent inertia, che porta spesso all’overcommittment e al lock-in sulle posizioni del disegno tecnologico dominante da parte delle aziende incumbent: Intel, AMD e Arm.
Quali siano le reali possibilità di sviluppo e di applicazione per il “materiale delle meraviglie” è difficile a dirsi. Ma si può sicuramente già affermare che i risultati conseguiti negli anni e l’interesse dimostrato in cospicui finanziamenti, non possono che far sperare in ottime possibilità future.
FONTI
Catalogo FGTR Graphene
Direct Plus- Annual Report 2018
Directa Plus- Interim Report 2019
Graphene Flagship- Annual Report (2019)