Il 23 luglio scorso, in Inghilterra, Nicholas Turner è stato protagonista di una tragedia purtroppo tutt’altro che unica nel suo genere: Nicholas si è infatti tolto la vita nel giorno in cui aveva annunciato ai genitori che si sarebbe laureato, quando in realtà gli mancavano ancora alcuni esami. Tale fenomeno, che coinvolge gli universitari sfortunatamente non è nuovo neanche nel nostro Paese; il caso della studentessa molisana Giada Di Filippo, risalente ad aprile dell’anno scorso, è soltanto il più noto di una lunga serie.
Si tratta di situazioni limite, è vero, ma è innegabile che siano molti gli studenti che mentono alla propria famiglia e/o ai propri amici riguardo alla carriera universitaria. Viene da chiedersi quali siano dunque le ragioni che spingono a un tale comportamento.
Certamente, una motivazione piuttosto rilevante deriva dalla considerazione generale del ruolo dello studente universitario all’interno della società. In questo senso, il confronto con i coetanei lavoratori è “impietoso”: la convinzione che la fatica impiegata per lo studio (e in generale per l’attività prettamente intellettuale) non sia minimamente paragonabile a quella necessaria per lavorare è ancora piuttosto radicata nell’immaginario collettivo. Senza considerare poi che gli universitari, pendolari o fuorisede che siano, sono comunque necessariamente sottoposti a una condizione di dipendenza economica dai propri genitori, molto spesso anche nel caso in cui riescano a lavorare e, contemporaneamente, portare avanti gli studi.
Proprio i genitori, e più in generale la famiglia, rappresentano coloro ai quali si mente maggiormente riguardo all’andamento universitario. Quasi certamente perché è a loro che sono demandati i maggiori sacrifici (sicuramente economici, ma spesso non solo) per poter permettere ai figli di studiare: lo studente, rendendosi conto di ciò, è dunque necessariamente vincolato a non deludere le aspettative genitoriali per non veder vanificati gli sforzi della famiglia, prima ancora che i propri. Basti pensare che, nella stragrande maggioranza dei casi, la prima dedica nella sezione “Ringraziamenti” della tesi di laurea è rivolta appunto ai genitori.
Tutto ciò deriva da (e in parte probabilmente contribuisce ad alimentare) un’immagine piuttosto negativa dello studente universitario, e più in generale del titolo di studio universitario, all’interno della società stessa. Un esempio lampante è dato da alcuni dei protagonisti del dibattito politico più recente, i quali si vantano, tra le altre cose, di rappresentare le nuove generazioni e di parlare direttamente ai giovani, al contrario degli appartenenti alla classe politica precedente. Ebbene, non è un segreto che molti di questi abbiano abbandonato gli studi o comunque non abbiano conseguito la laurea.
I dati Istat sull’istruzione risalenti all’anno scorso sono in questo senso inequivocabili: meno del 27% degli italiani tra i 30 e i 34 anni ha conseguito un titolo di studio terziario, collocando l’Italia al penultimo posto tra i paesi dell’Unione Europea. Si tratta, inoltre, di una situazione che non subisce alcun mutamento da circa un decennio.
Il modo in cui viene percepita la condizione degli universitari dunque non è altro che la cartina tornasole di una società incapace di guardare al futuro, in cui predomina il concetto che ottenere “tutto e subito” sia meglio che progettare a lungo termine e in cui è molto diffusa l’idea che a determinati sacrifici raramente o quasi mai corrispondano altrettante soddisfazioni, anzi, più spesso si dimostra vero il contrario. Lo sforzo, innanzitutto economico, necessario per sostenere gli studi universitari viene visto come un peso piuttosto che come un investimento. Una situazione per cui, insomma, “il gioco non vale la candela”.
La concezione che ne deriva non può ovviamente non riflettersi sull’immagine che lo studente stesso ha di sé, influenzando sua la scarsa capacità di fare progetti concreti per l’immediato futuro, anche per colpa del fatto di entrare tardi in un mondo del lavoro che non garantisce certezze praticamente per nessuno. Da qui derivano scelte affrettate, che portano a frequenti cambi di facoltà a caccia della più adatta (o anche più redditizia) e ritardi più o meno lunghi nel conseguire gli esami, che spesso sfociano nell‘abbandono degli studi o, come detto sopra, inducono a mentire sulla propria carriera, con tutte le conseguenze che ciò comporta.
Lo studente universitario si trova dunque in una realtà che sembra scorrere parallela rispetto a quella “reale”, avendo praticamente come unico sostegno quello della famiglia (nei casi migliori). Paradossalmente, per pensare di poter ricoprire un ruolo attivo nella società, l’universitario sembra trovare motivazioni piuttosto scarse in questa stessa, dovendo credere necessariamente in se stesso più di chi invece avrebbe il compito di accompagnarlo e proteggerlo.