Un artista viennese e le sue opere parzialmente sciolte. Un inno al cambiamento, alla riflessione, all’indagine critica che, nonostante abbia una visibilità in primo piano, sembra ancora ignorata, mentre il tempo, sempre più vorace, deturpa le bellezze eterne.
La nostra casa è in fiamme. È una frase dell’attivista svedese Greta Thunberg, che l’artista viennese Alper Dostal rilancia metaforicamente nella sua raccolta di opere Hot Art Exibition. Perché così come la Terra è la casa che accoglie i suoi carnefici, anche il repertorio artistico che riposa sulla memoria storica è una dimora da proteggere. Come cita Marracash nel suo singolo Greta Thunberg- Lo stomaco:
Ce la posso fare, meglio di mio padre.
Tocca alle generazioni future, migliorare e arrivare laddove gli altri non hanno capito l’urgenza.
Alper Dostal si propone come uno dei portavoci del cambiamento e ripropone alcuni capolavori della storia dell’arte rivisitati in chiave fluente. Sono creazioni parzialmente sciolte, fuse, ma forse non c’è un termine così onomatopeico come l’inglese melted, che offre l’immagine della melma mefitica che si sta formando lentamente nel sostrato del Pianeta.
Le opere scelte dall’artista sembrano poi rievocare un significato recondito.
A partire da La Notte stellata di Van Gogh, che ormai è uno spettacolo raro nelle città e dintorni, i cui cieli sono soffocati dal crescente inquinamento. C’è poi il celebre Urlo di Edvard Munch, che sembra un grido ovattato, senza suono, così come l’urlo al cambiamento sembra passare inascoltato.
Ma il richiamo più interessante riguarda La persistenza della memoria di Salvador Dalì e i suoi famosi orologi molli che rappresentano la graduale disgregazione del tempo. È ciò che più spaventa perché ha una natura irreversibile. Non si può tornare indietro una volta che il danno è fatto.
Per questo bisognerebbe agire preventivamente, con la consapevolezza che non può ancora essere troppo tardi. Sembra però che il tempo sia sempre più inafferrabile, scivoli dalle dita senza possibilità di riscatto.
C’è questo e molto altro nel simbolismo adottato da Alper Dostal. Un’indagine critica, che dona allo spettatore la possibilità, sempre più temporalmente ridotta, di osservare e riflettere sulla realtà circostante.
Così come lo sfruttamento invasivo delle risorse sta sempre più velocemente deformando la Terra, anche dipinti dall’eterna e immutabile bellezza possono non durare per sempre.
È deperibile ciò che è più fragile, che non riesce a imporsi ai fattori parassitari che lo attanagliano. E cosa c’è di più delicato di un’opera d’arte. Una sottile tela imbevuta dei colori che le donano un’esistenza artistica e l’elevano a status di opera d’arte. Ma pur sempre una tela, che si cerca labilmente di proteggere con una cornice e una teca di vetro. Gli unici strumenti che la separano dall’osservatore, dall’uomo e dalla sua possibile incidenza deleteria.
Sembra che con la contemporaneità l’opera d’arte abbia perso quell’aura che la caratterizzava, entrando nel tempo della sua riproducibilità tecnica, come la chiama Walter Benjamin nella sua omonima e celebre opera. Un dipinto non è più quindi cristallizzato in una gabbia che lo separa dal suo sfruttamento, su un altare d’oro che ne sottolinei la fragilità e l’unicità.
L’opera d’arte, nonostante sia confinata su quella parete, in quella sala, di quel museo, è attaccabile. È come se simbolicamente passasse di mano in mano, sempre più deturpata, sempre più indebolita per lo sfruttamento commerciale e l’abuso inflazionato della sua immagine.
Così l’opera assorbe i segni del tempo e li esperisce, li rigetta all’esterno lanciando un grido d’aiuto. Quell’urlo che comunica anche Alper Dostal, dicendoci che nulla dura in eterno. Quindi perché continuare ad abusarne indiscriminatamente se poi non ne potremo più godere? Perché invece non consumarlo poco alla volta, come una risorsa limitata?
Il problema del surriscaldamento globale è urgente. Ne parlano in tanti, ora sulla scia della portavoce, Greta Thunberg, ma Alper Dostal crea un simbolismo importante e soprattutto visivamente efficace. Riprende quello che Jackson Pollock ha introdotto come dripping, scie di vernice che si espandono lungo la tela e che muovono da una natura creativa primitiva e incontrollata.
In questo caso non c’è termine migliore che possa associarsi a un uso maleducato, indiscriminato e frenetico delle risorse. Uno sfruttamento che si ramifica in maniera incontrollata, così come quei serpentelli di vernice che colano dalle opere di eterna bellezza e sembrano non poter più essere contenute.