Scalare montagne inviolate, affrontare pareti verticali dalle Alpi all’Himalaya. Camminare per deserti ghiacciati e sabbiosi da un angolo all’altro del globo. E ancora raccontare queste e infinite altre avventure con film, libri, incontri. Come si può fare tutto ciò in una sola vita? Con passione e determinazione, lavorando per migliorare le proprie capacità e imparando quando accettare il fallimento. E, quando parliamo di Reinhold Messner, anche iniziando da molto giovani.
La prima scalata del famoso alpinista, nato a Bressanone nel 1944, avviene quando Messner ha solamente cinque anni, al seguito del padre, sul Sass Rigais. Da quel momento in poi il numero delle sue ascensioni cresce in modo esponenziale, tanto che già nel 1973 lo scalatore ha all’attivo più di 500 vie, molte delle quali prime, spaziando lungo tutto l’arco alpino. In questi anni di formazione umana e alpinistica, Messner diventa un forte sostenitore dello stile alpino, che poi esporterà in tutte le sue future imprese, rivoluzionando il mondo dell’arrampicata: seguendo la filosofia del non invadere le montagne ma affrontarle semplicemente con un equipaggiamento ridotto al minimo indispensabile, senza portatori o sherpa e nemmeno con l’ausilio dell’ossigeno, tratti distintivi delle spedizioni mondiali che tentavano la conquista dei massicci extra europei. Rimane celebre in quest’ottica anche l’articolo L’assassinio dell’impossibile del 1968, vero e proprio manifesto del suo stile d’arrampicata. Tra le più famose e incredibili ascese fatte da Messner in questo periodo, spesso in compagnia del fratello Günther e di altri amici alpinisti, indelebili nella storia dell’alpinismo rimangono la “via degli amici” sulla parete nord-ovest del Monte Civetta nel 1967 e l’impresa sull’inviolato, fino a quel momento, Pilastro di Mezzo del Sasso di Santa Croce, nelle Dolomiti. In particolare, con il “passaggio Messner”, un insidioso passaggio che verrà ripetuto solamente dieci anni più tardi, viene superato per la prima volta nella storia dell’alpinismo il settimo grado.
Ma è dai primi anni Settanta e durante gli anni Ottanta che il potenziale e la sete di avventura di Reinhold Messner trovano il luogo che consacra lo scalatore come una stella intramontabile di questa disciplina, poiché si susseguono spedizioni gloriose, ma anche molto dolorose, che dall’Himalaya ai Poli vedono Messner protagonista di imprese considerate impossibili. Nel 1970, durante la discesa dal Nanga Parbat, perde tragicamente la vita il fratello e compagno di molte avventure Günther, il cui corpo verrà recuperato dai ghiacci solamente a distanza di circa trent’anni. Nel 1975 affronta con Peter Habeler la scalata al Gasherbrum I, senza utilizzare ossigeno supplementare, per poi partecipare alla spedizione, fallita, guidata da Riccardo Cassin (di cui abbiamo parlato qui) per l’inviolata parete sud del Lhotse. Nel 1978 compie la sua impresa forse più conosciuta, conquistando per la prima volta nella storia, sempre in coppia con Habeler, l’Everest, senza ossigeno. Questa prova fisica, considerata dai più umanamente impossibile, tanto che all’epoca venne accusato di aver mentito riguardo il non ausilio di ossigeno, verrà poi replicata nel 1980 in periodo monsonico in solitaria. Si susseguono così successi alpinistici notevoli, come la salita in solitaria del Nanga Parbat, fino a che, con il raggiungimento della vetta del Monte Vinson in Antartide, nel 1986 Messner conquista le Seven Summits, cioè tutte le cime più alte dei continenti, introducendo la “lista Messner”, che rende l’impresa particolarmente difficile e che verrà in seguito spesso seguita. Nello stesso anno, scalando il Lhotse, l’alpinista italiano diventa il primo uomo ad aver conquistato tutte le vette che superano 8000 metri di altitudine del mondo, i quattordici 8000, salendone inoltre alcuni più volte.
Quel ragazzo, che Walter Bonatti, a cui abbiamo dedicato questo articolo, aveva definito come “ultima speranza del grande alpinismo tradizionale”, che è stato capace con le sue imprese di rivoluzionare l’approccio alla montagna e alle spedizioni avventuristiche, ha portato una profonda riflessione sullo stesso alpinismo. I cosiddetti “conquistatori dell’inutile” sono pronti a sacrificare anche la propria vita per raggiungere un bisogno, soddisfare una necessità di libertà e di curiosità che difficilmente può altrimenti essere appagata. Ma allo stesso tempo Messner ha dimostrato, con le sue azioni e i suoi scritti, di esser capace di apprezzare e fare propri anche gli insegnamenti più duri della vita in cordata e scarponi che scelto di seguire.
Nel 2019 il termine esploratore sembra aver perso il carattere dell’attualità. Già dagli anni Cinquanta del secolo passato le attenzioni delle due maggiori potenze globali erano rivolte interamente verso stelle e pianeti distanti dalla nostra sempre meno sconosciuta Terra, e solamente pochi territori e luoghi potevano ancora fregiarsi di celare segreti all’umanità. Con l’arrivo di satelliti, Google Maps e affini, la Terra sembra ormai sostanzialmente nuda agli occhi dei curiosi e la stessa figura dell’esploratore tende a riempire solamente racconti del passato. Eppure, in controtendenza con questa idea della progressiva scomparsa dell’avventura, la vita di Reinhold Messner è una testimonianza continua di quanto la ricerca della sfida e l’esplorazione dell’ignoto siano qualcosa di profondamente umano, che mai potrà abbandonarci. E del fatto che il nostro pianeta ha ancora molto, moltissimo, da mostrarci.