L'“Antologia di Spoon River” e De André al Pacta

L’“Antologia di Spoon River” e De André al Pacta

Letteratura, musica e teatro: un trinomio perfetto. O meglio, la letteratura e la musica si incontrano sul palcoscenico per dar vita a personaggi, per raccontare delle storie. Al Pacta, produzione Il Sipario Strappato – Antico Teatro Sacco, è andato in scena nella stagione 2018/2019 La collina di Spoon River e le canzoni di Fabrizio De André.
Edgar Lee Masters, ponendosi l’obiettivo di raccontare l’intera vita umana, scrisse epitaffi funebri evocanti le vicende di personaggi abitanti del paese di Spoon River. Li raccolse, tra il 1914 e il 1915 nell’Antologia di Spoon River.
De André, leggendo l’opera, decise di trarne delle canzoni. Mescolando poesia ad altra poesia, musicando letteratura, incluse le canzoni nell’album Non al denaro, non all’amore né al cielo (ve ne abbiamo parlato qui). Cesare Pavese, in commento a Lee Masters, disse:

Si direbbe che per Lee Masters la morte – la fine del tempo – è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima.

Quel simbolo che ha “inchiodato per sempre” l’uomo – il personaggio – è stato colto nella sua essenza dalla compagnia. L’evocazione del personaggio avviene grazie a un oggetto concreto caratterizzante, un ricordo che lo lega alla vita. Gli spiriti, uno dopo l’altro, popolano il palcoscenico trepidanti dalla voglia di raccontare la propria storia, sprizzano energia allo spettatore che, ipnotizzato, non riesce a smettere di guardarli. Le anime hanno l’energia dei vivi, comunicano con l’ingenuità dei bambini, nonostante a volte piombino in stati di desolazione e depressione, frutto dell’irreversibilità della loro condizione.

La rappresentazione è simmetrica: da una parte gli attori, sempre in scena seduti sulle sedie, dall’altra i musicisti. La complementarietà dei due corpi è data anche dai costumi: gli attori sono bianchi, come i morti, i musicisti neri. Nel mezzo, come a creare una muraglia che separa, un baule colmo di oggetti, quegli stessi oggetti presi, di volta in volta, per evocare i personaggi. Guccini in Signora Bovary cantava:

Valigie vuote, piene di trucchi per tragedie immaginarie…

Il particolare oggetto non è che un emblema del personaggio: i morti sono tutti uguali, hanno gli stessi vestiti e le stesse sembianze. Tutto ciò che li differenzia dalla moltitudine è quel concreto frammento di vita vissuta. Il “trucco” consente di recitare la proiezione di se stessi in vita. Il processo di decostruzione della scena è lento e coinvolge l’intero spettacolo, contribuendo alla scansione ritmica. L’ordine degli oggetti nel baule viene, di volta in volta, alterato: alcuni oggetti sono appesi (come panni bagnati) sullo sfondo, altri sono buttati per terra. Alla fine del momento di gloria lo spirito accantona il proprio ricordo, tornando nell’oscurità.

La presenza dell’orchestra ha contribuito alla resa di un’atmosfera serena e ha alleggerito il testo, recitato in fedele traduzione. L’accostamento del testo letterario alle canzoni di De André ha condotto a reciproca esaltazione. Il cantautore, infatti, riscrisse i testi attualizzando questioni arcaiche, poco sentite dalla contemporaneità. Tuttavia l’essenza dei personaggi è la stessa di quelli di Lee Masters. Lo spettacolo rappresenta una possibile via percorribile nel dialogo artistico: tre sono le discipline che si accordano in un’armonia soave e delicata.

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