Probabilmente le risposte alla domanda del titolo, riguardante il “sogno europeo”, avrebbero a che fare con problemi di matrice economica o più pragmaticamente di origine etnica, e le paventate soluzioni a questi dilemmi darebbero la sensazione di girare a vuoto sul Gran Raccordo Anulare senza mai trovare l’uscita giusta. Insomma, gli europei sono ancora lontani dal sentirsi un popolo “unito nelle diversità”: d’altro canto nemmeno l’Unione Europea sta molto bene. Bisogna perciò avere il coraggio di ricordarsi cosa ci ha portato dove siamo, e perché.
Più o meno un secolo fa, i governanti europei (Zar, Re e Primi Ministri poco democratici, se per democrazia si intende quella dei giorni nostri) si riunirono in una conferenza all’Aia con l’intento di trovare un quadro di limitazione europea degli scontri e delle armi. Inutile ricordare come questo progetto naufragò pochi anni dopo la stesura del documento ufficiale di quell’incontro. A sorprendere non è tanto il fatto che le nazioni europee si incontrassero per far fronte a un’esigenza che noi consideriamo contemporanea ma che ha profonde origini storiche, quanto il livello di cooperazione raggiunto da paesi che ancora non avevano dato vita al progetto dell’Unione Europea.
Fino allo scoppio del primo conflitto mondiale, l’Europa era costituita da Stati con apparati burocratici totalmente assoggettati dalla funzione bellica: le vie delle più grandi città venivano intitolate a eroi di guerra, i generali militari tenevano sfarzose conferenze nelle università. La guerra, possiamo dire, penetrava nel tessuto civile a ogni occasione, e non sorprende che un europeo dell’epoca pensasse alla ricerca di gloria e di onore solamente in funzione del conflitto armato.
Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, gli eserciti europei erano invasi da giovani ragazzi in cerca di fortuna e senza un briciolo di paura nello sguardo, ansiosi di arrivare nei luoghi in cui oggi ci ritroviamo a celebrare i drammi della guerra di trincea. L’ideale di un’Europa unita non veniva preso in considerazione da nessuna segreteria politica all’epoca, se si eccettuano gli accordi militari.
A guerra conclusa, i ragazzi che avevano combattuto con gloria e onore non erano più innocenti né tantomeno trepidanti all’idea di entrare in guerra. Scoprirono che chi li aveva così fortemente spinti a cercare la gloria nell’impresa bellica aveva mentito. Non c’era gloria nel cadere sotto i colpi di una mitragliatrice, non c’era gloria nel non sapere a chi si stesse sparando. La gloria era da ricercarsi altrove, non certamente nelle gallerie in prossimità di una trincea.
Neanche lontanamente memori di quanto accaduto tra il 1914 e il 1918, gli europei si fecero trascinare in un vortice di orrore ancora più grande e ancora più pericoloso con la Seconda guerra mondiale. Negli anni Quaranta, l’idea che le persone avevano dell’onore non veniva più collegata alla guerra, ma l’apparato bellico esigeva comunque che ogni cittadino collaborasse alla distruzione del nemico. La distruzione totale a cui si assistette in quegli anni determinò un brusco cambio di rotta: durante il periodo della ricostruzione, nelle grandi città europee i giovani cominciarono a capire che la società poteva rimanere unita anche al di fuori dello scontro. La formazione scolastica divenne in poco tempo più importante di quella bellica, gli eserciti di quasi tutti i paesi europei abolirono la leva di massa obbligatoria in favore del servizio civile. Il patriottismo, inteso come devozione bellica alla patria, stava scomparendo.
L’idea che un’Europa unita nel progresso più che nello scontro potesse realizzarsi davvero cominciò lentamente a farsi strada nella testa dei governanti dell’epoca: Schuman, De Gasperi e Adenauer furono i primi a coglierne la necessità. L’Europa aveva bisogno di proteggersi attraverso l’identificazione del continente con un ideale: il popolo europeo, quel popolo così tanto tormentato e martoriato per troppi anni, che aveva affrontato inoltre due grandi genocidi, quello ebraico e quello armeno, nell’arco di appena trent’anni.
Ricordare la devastazione terrena e umana che accompagnò la prima metà del Novecento è importante, soprattutto oggi, all’interno dei confini dell’Unione europea, fra cittadini liberi di spostarsi dovunque vogliano nel vecchio continente. L’ideale della pacifica convivenza dei nostri popoli portò presto alla ricerca di accordi economici e sui diritti umani. Molti paesi furono costretti ad aspettare di unirsi alla comunità europea fino alla loro completa democratizzazione.
L’idea dell’Europa, dell’Unione Europea, nasce per evitare la guerra. È questo quello che occorre ricordarsi. Nasce perché l’esigenza del tempo è mutata: non si scalpita più per combattere, ma per non doverlo fare. Gli eserciti non si avvalgono più delle leve di massa obbligatorie, si sono ammodernati e hanno incluso le donne nei loro ranghi. Insomma, l’Europa non è ancora unita e i cittadini non hanno ancora compreso appieno l’appartenenza europea, ma, rispetto ai loro antenati, hanno la possibilità di comprenderla senza sparare un colpo.
La nostra generazione ha un’occasione storica: cambiare il mondo combattendo on-line, con la parola, usando i dispositivi elettronici come proiettili. Un’opportunità che non va sprecata. Non si tratta di eroi, ma di semplici civili che scambiano la gloria e l’onore con la pace e la giustizia sociale.