Chi sono i veri villain di Arancia Meccanica (A Clockwork Orange, 1971)? Alex DeLarge e i suoi Drughi o la società e i suoi soprusi? Prima di cercare una risposta a questo interrogativo è necessario fare un passo indietro e tornare al titolo del romanzo di Anthony Burgess del 1962. “As queer as a clockwork orange” è un’espressione utilizzata nell’East London per indicare come ciò che in apparenza è semplice e naturale possa, in realtà, celare un sostrato inaspettato e non convenzionale. Un po’ come il protagonista (interpretato da Malcolm McDowell) che, forzatamente privato del libero arbitrio e della manichea possibilità di scegliere cosa è bene e cosa è male, si ritrova a essere, sotto la scorza del cittadino comune, un automa programmato ad hoc. Come spiegato dallo stesso Kubrick:
È necessario che l’uomo possa scegliere tra bene e male e che ci sia il caso in cui egli scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta, significa renderlo qualcosa di inferiore all’umano – un’arancia meccanica appunto.
«Il buon vecchio Ludovico Van»
Korova Milk Bar, è una serata come tante altre: Alex e il suo gruppo di Drughi, prima di dare il via a un’altra nottata della tanto amata ultraviolenza, sorseggiano placidamente Latte+ (corretto con mescalina e altri stupefacenti) per poi dedicarsi a stupri, percosse e razzie. Colonna sonora delle scorribande notturne è la musica classica, della quale il protagonista è cultore e grande appassionato (nel film egli è solito riferirsi a Beethoven come al «buon vecchio Ludovico Van»).
Più volte i compagni di scorribande mettono in discussione l’autorità del giovane all’interno del gruppo, naturale conseguenza dell’anarchia che guida le loro esistenze sregolate. Il culmine di questo insofferente ammutinamento costituisce il turning point che mette in moto la seconda metà della pellicola. Al termine di una rapina finita nel sangue in una clinica per dimagrire, il protagonista viene aggredito dagli altri Drughi e lasciato privo di sensi in balia della polizia. Incriminato per l’efferato omicidio (compiuto con una scultura di gesso dalla forma fallica) dell’anziana proprietaria della struttura, Alex viene condannato a quattordici anni di reclusione.
Brainwashing: la fine del libero arbitrio
In carcere il giovane si comporta civilmente e, grazie alla sua buona condotta, ottiene dopo due anni la possibilità di essere sottoposto a una terapia sperimentale promossa dal Governo, la cura Ludovico, in grado di redimere qualsiasi malvivente in soli quindici giorni per poi rilasciarlo. Allettato da questa prospettiva, Alex accetta di prestarsi come cavia: nulla sarà più come prima. Portato in un centro medico, qui viene sottoposto alla visione forzata di immagini e filmati di violenza e degenerazione: con le palpebre mantenute spalancate da appositi divaricatori e con la somministrazione di farmaci che provocano nausea e disgusto, il trattamento si rivela una tortura disumana. Ad accrescere ulteriormente le sofferenze del giovane è l’accompagnamento sonoro dei lungometraggi, quella stessa musica classica che tanto adorava e che ora non riesce più ad ascoltare senza restarne profondamente disgustato.
Il modello rieducativo della cura Ludovico non è altro che l’induzione di una insopportabile repulsione fisica, bieca privazione del libero arbitrio, nei confronti del male: d’ora in avanti Alex non sceglierà il bene per attitudine ma perché la paura del dolore lo frenerà dal compiere azioni criminose. Così riformato, dopo due settimane di terapia, l’uomo crudele e sanguinario si è trasformato in un tenero agnellino. Da amorale carnefice a vittima imbelle: il rientro in società dell’ex capo dei Drughi è quanto di più beffardo e crudele gli potesse accadere. I ruoli si sono completamente rovesciati e chiunque avesse subito le sue vessazioni ora è in cerca di vendetta per i torti passati: l’impossibilità di difendersi e di reagire rendono la sua vita un inferno e, a tal punto esasperato, il giovane sceglie la via del suicidio, gettandosi dalla finestra.
È tempo di bilanci
Risvegliatosi in un letto d’ospedale dopo il coma, Alex si rende ben presto conto di come qualcosa sia cambiato in lui. La rovinosa caduta ha azzerato gli effetti della cura Ludovico e il pensiero di compiere il male è tornato a essere una fonte di piacere. Il gesto estremo del ragazzo, tuttavia, ha profondamente scosso l’opinione pubblica, con il Governo accusato dalla stampa di aver esercitato metodi coercitivi nella procedura di rieducazione. Da questo scandalo il giovane trae il massimo del profitto: il Segretario per gli affari interni, in cambio della collaborazione di Alex, acconsente alla sua nomina a capo della polizia. Una posizione che gli consentirà di perpetrare le sue sevizie in piena legalità, senza più alcuna preoccupazione di carattere penale.
Quindi, a conti fatti, chi è il vero cattivo di questa vicenda? È maggiormente degna di condanna la propensione al male del ragazzo, scelta deliberata e consapevole, o la società che, pur di omologare i suoi figli e farli vivere in uno stato di quiete imperturbabile, non esita a operare lobotomie in grado di annullare il raziocinio umano? Ai posteri l’ardua sentenza.