La Biennale di Venezia ha proposto anche quest’anno un ricco e internazionale assetto di opere d’arte, il cui filo narrativo comune sembra velatamente lanciare un urlo per la salvaguardia dei diritti civili dell’uomo in una contemporaneità sopraffatta dalla violenza, l’ingiustizia e l’indifferenza.
Come si può parlare di diritti civili attraverso l’arte?
Prendiamola 58° edizione della Biennale di Venezia, che appare sfocata oggi, all’ombra dei recenti avvenimenti che hanno travolto la città, intaccandone anche il patrimonio artistico.
Ha avuto inizio l’11 maggio, con gli spazi dei Giardini e dell’Arsenale aperti fino al 24 novembre. Il suo curatore, Ralph Rugoff, l’ha intitolata May you live in interesting times (Che possa tu vivere in tempi interessanti). Un’espressione usata per oltre cent’anni in politica con la pretesa di essere la traduzione di un antico anatema cinese.
Assume l’aspetto di una maledizione, nonostante la sua traduzione letteraria possa sembrare benevola. In realtà si riferisce ironicamente a quei periodi di pace e tranquillità, che appaiono poco interessanti, rispetto ai periodi bellicosi. Non a caso tale esclamazione fu pronunciata dal parlamentare britannico Sir Austen Chamberlain, in occasione dell’occupazione tedesca della Renania.
Il parallelismo con la contemporaneità riecheggia in quei tempi interessanti, più attuali che mai. Tempi di un’esistenza volatile, frammentaria, disordinata, caotica. Un’esistenza che non rinuncia alla sopraffazione, alla violenza e all’indifferenza, ma se ne nutre con quella che appare come noncuranza dei diritti civili. Per questo i 79 artisti in mostra alla Biennale si inseriscono in un’architettura narrativa che parla di un presente problematico, con la consapevolezza, purtroppo, di non poterlo cambiare.
May you Live In Interesting Times si focalizza su artisti che mettono in discussione le categorie di pensiero esistenti… la loro opera nasce dalla consuetudine di osservare la realtà da punti di vista molteplici, ovvero dall’attitudine di tenere in considerazione concetti apparentemente contraddittori e incompatibili.
L’invito è quello di accogliere la complessità del contemporaneo e allontanarsi dall’eccessiva semplificazione del tutto, predominante. Tale complessità scaturisce dal sistema di interconnessioni tra fenomeni apparentemente distanti, che invece hanno molto da mostrare, con la convinzione che il significato non stia nell’oggetto, ma nelle relazioni che lo interfacciano con la realtà.
Così gli artisti raccontano sé stessi e le realtà geografiche, politiche e sociali da cui provengono.
Non è importante che non ci sia un vero e proprio tema come filo conduttore dell’esposizione, perché l’originalità sta nel cogliere il già visto con uno sguardo inusuale.
In questo modo concetti come identità, genere, razza vengono sottoposti all’attenzione rinnovata dello spettatore. E non manca di affermarsi a gran voce la richiesta di libertà. Una libertà come diritto, alla vita, all’espressione, alla cittadinanza, alla famiglia, a cercare asilo in altri Paesi, a partecipare liberamente al governo. Sono i diritti civili velati dietro la narrazione artistica.
Il gelido controllo del potere
Dalla Cina si raccontano Sun Yan & Peng Yu. Portano due opere in mostra: Can’t find myself e Dear, entrambe di forte impatto visivo.
Nel primo caso si tratta di un braccio robotico, programmato per eseguire trentadue azioni umane, dall’inchino alla stretta di mano. Tuttavia, la sua performance alla Biennale consiste nel trattenere l’espansione sul pavimento di un liquido rosso vischioso con una pala che ripulisce meccanicamente il tutto. Funziona grazie ad algoritmi randomici, che permettono al robot di risucchiare il sangue concentricamente, per poi espanderlo nuovamente intorno a sé.
Il meccanismo però agisce in maniera sgraziata, spargendo quello che sembra sangue sulle pareti vetrate della sua gabbia espositiva. Appare come un animale in gabbia, un essere seviziato e domato dal potere, che agisce frigidamente al suo cospetto. Tuttavia i suoi attimi di rabbia incontrollata, che si esprimono con la mancanza di grazia nei movimenti, rappresentano una forma di ribellione. Una lotta per i propri diritti civili, contro la tortura e l’imposizione autoritaria del potere.
L’identità africana
Molti sono anche gli esponenti africani, che raccontano la propria cultura, la persecuzione razziale e lo sfruttamento minerario del Paese, prosciugato nelle sue componenti e ridotto a un fiume inquinato, simbolo della fame di potere e ricchezza. È quest’ultima l’opera di Otobong Nkanga, nigeriano, autore di una scultura in marmo e vetro di murano colorato che ricorda un rigagnolo d’acqua, sterile e al tempo stesso pieno di tutto ciò che lo sta lentamente uccidendo.
Njideka Akunyili Crosby e Arthur Jafa raccontano invece la profonda cultura del loro Paese e il rispetto, come tutte le altre culture, che richiede.
In particolare, quello di Jafa è un messaggio contro l’odio razziale emanato dalla supremazia bianca. Un urlo lanciato con il titolo ironico della sua opera, White Album.
L’instabilità geopolitica e il racconto della violenza
Il clima di sopraffazione e violenza rappresenta il filo comune di molte opere, come quella dell’artista messicana Teresa Margolles. Il suo Muro Ciudad Juaréz è un’installazione in cemento e filo spinato, divorata dai segni dei proiettili. Si tratta di un reperto direttamente prelevato dal luogo che ne dà il titolo, un testimone della violenza criminale quotidiana che mina l’incolumità umana.
L’artista indiana Shilpa Gupta lancia invece un messaggio internazionale, legato alla fragilità dei confini geopolitici. Lo rappresenta con l’installazione di un cancello automatico in movimento, che sbatte contro una parete in calce, disgregandola progressivamente. La sua è un’analisi del concetto di confine, come muro di separazione di etnie e religioni e strumento di sorveglianza repressiva esercitata dall’autorità. In questo caso, la violenza si esprime attraverso il controllo che mina la libertà di movimento geografico come diritto civile.
Ma la minaccia contro i diritti civili si può esprimere anche in altre forme, inficiando sulla libertà di espressione, nell’identificazione sessuale e nella rappresentazione che si vuole dare del proprio corpo, come mostrano le artiste Martine Gutierrez e Mary Katayama. Così le opere presentate, di cui si è parlato qui in piccola parte, si dipanano tra i più svariati argomenti, mettendo in luce le contraddizioni della contemporaneità.
Il riferimento immediato è a Opera Aperta di Umberto Eco, di cui parla Ralph Rugoff per la natura relazionale dell’opera d’arte. Oggetto di discussione, confronto, commento e reinterpretazione continua di concetti già esistenti, ma probabilmente non ancora abbastanza approfonditi.
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