Identità e responsabilità: “Heimat” di Nora Krug

Il termine tedesco “Heimat” rappresenta l’idea di un paesaggio, di un luogo reale o immaginario al quale una persona associa un senso di familiarità. Il senso di “Heimat” si trasmette di generazione in generazione tramite la famiglia, le istituzioni e le ideologie politiche, ed è stato cooptato, così come altri concetti, dal regime nazista. Nell’omonimo graphic memoir, edito Einaudi, l’autrice Nora Krug, di origini tedesche ma emigrata da decenni negli Stati Uniti, ricostruisce la storia della propria famiglia e fa i conti con il ruolo da essa rivestito durante il periodo del nazismo.

Dopo dodici anni che vivo in America – dove chi confessa le proprie colpe in TV riceve l’assoluzione; dove termini biblici come il Male s’insinuano nei discorsi presidenziali e dove Adolf Hitler da figura storica si è trasformato nel simbolo stesso del male; dove gli insetticidi spray – Frontline, Combat, Raid – hanno nomi attinti dalla terminologia militare; dove non si “soffre” di una malattia, la si “combatte”, dove non si pensa mai al peggio nella convinzione che non succederà niente di brutto finché non succede; e dove l’adulterio può impedirti di ottenere la cittadinanza quanto aver militato nel partito nazista – mi sento più tedesca che mai.

Il punto di partenza di Nora Krug è ritrovare la propria identità tedesca confrontandosi con altri immigrati negli Stati Uniti: un gruppo di immigrati ebrei tedeschi e austriaci, un raduno di americani di origine tedesca, una full immersion nel folklore nostalgico della comunità tedesca di Milwaukee, ancora legata a una concezione ottocentesca di nazione e avulsa dal senso di colpa collettivo dato dall’esperienza totalitaria. L’anacronismo di queste rievocazioni non fornisce all’autrice uno strumento sufficiente a fare i conti con il senso di colpa collettivo che ancora permea la Germania.

Nora Krug decide quindi di compiere un atto di consapevolezza generazionale e storica, personale e politico insieme: ricostruisce, grazie a cimeli di famiglia, quaderni di scuola conservatisi per decenni, fotografie d’epoca e documenti d’archivio, le vite dello zio Franz-Karl, morto in Italia mentre era al servizio delle SS, e del nonno Willi, insegnante di guida nel fronte interno durante la Seconda guerra mondiale. Nel fare ciò mette in evidenza il continuo irrompere della Storia nelle storie individuali, le responsabilità e le complicità — esplicite o taciute — e il contrasto profondissimo tra la volontà di condannare lo zio Franz-Karl per la sua associazione al nazismo e il desiderio di compiangerlo in quanto membro della sua famiglia.

Una lacerazione così profonda nella Storia ha portato la popolazione tedesca ad avvertire un senso di colpa collettivo nei confronti dei crimini perpetrati dal nazismo, tanto che gli anni dopo la Seconda guerra mondiale sono definiti “gli anni dell’oblio“. Si tratta, più che di oblio vero e proprio, di un ripiegamento dei tedeschi entro se stessi, ben diverso dalle domande – legittime, eppure ancora controverse – poste dall’autrice. Quali e quante responsabilità avevano i suoi parenti? Dov’erano durante la Notte dei cristalli? Avevano votato per il partito nazista durante le prime elezioni? Troppi sono ancora i nodi non ancora sciolti, troppe le minimizzazioni e le dimostrazioni di omertà. Per paura di fare i conti con gli orrori collettivi degli anni del regime nazista, il rischio – particolarmente in questi anni di sviluppo di nuove forme di nazionalismo – è che si arrivi a negare la portata di quegli avvenimenti storici. Da questo rischio Nora Krug si difende ponendo a se stessa e agli altri domande dirette, senza sconti.

Che partecipasse attivamente o meno, entrando nel Partito nazista Willi inevitabilmente contribuì a promuovere la causa di un regime omicida. […] Sarebbe più facile gestire la mia vergogna se fossi riuscita a dimostrare la sua colpa, se avessi scoperto che fu in tutto e per tutto un nazista, senz’ombra di dubbio?

La riflessione dell’autrice si dipana con lunghi paragrafi di testo alternati a collage di documenti e fotografie, piccole rubriche – “Dall’album di un’archivista di ricordi“, una raccolta di chincaglierie rappresentative della vita quotidiana ai tempi del regime; “Dal diario di un’emigrata nostalgica”, un tentativo dell’autrice di riconnettersi con la sua Heimat tramite oggetti che riconduce alla sua esperienza personale – e tavole a fumetti per ricostruire particolari snodi temporali.

L’autrice trova così la propria Heimat in retrospettiva, dopo un’operazione che è metà ricordo e metà presa di coscienza. La sua identità tedesca continua a sussistere, a fare capolino nel suo accento e nella volontà di usare prodotti d’importazione, ma è continuamente in tensione con la responsabilità storica, quest’ultima viva più che mai dopo che l’estrema destra ha rivendicato, nel 2017, seggi nel Parlamento tedesco per la prima volta dopo oltre mezzo secolo. Così come la colla tedesca UHU, la Heimat è un collante potentissimo, che però non riesce a nascondere le crepe.


 

 

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