Come avviene per molte proteste che stanno animando in questo periodo diversi Paesi in ogni angolo del pianeta, la goccia che fa traboccare il vaso e che spinge migliaia di persone a riversarsi nelle piazze è qualcosa che può apparire insignificante nel grande ordine delle cose. Nel caso del Libano, questa goccia è stata la proposta di mettere una tassa sulla funzione chiamate dell’app di messaggistica WhatsApp, per un totale di 6 dollari al mese (5,38 euro). Questa cifra può apparire un’inezia, o almeno non un buon motivo per iniziare a protestare in piazza per giorni, ma le cose cambiano quando si capisce meglio il contesto.
Il Libano è un Paese dove il debito pubblico è tra i più elevati al mondo, ben 86 miliardi di dollari, pari al 150% del PIL. Inoltre, le disuguaglianze sociali sono fortissime: il salario minimo non arriva nemmeno a 300 euro al mese, una cifra che molti non arrivano comunque a portare a casa. Infatti, secondo alcune stime, un milione e mezzo degli oltre 4 milioni di abitanti del Paese vive con meno di 4 dollari al giorno, che corrisponde meno di 108 euro al mese. La difficile situazione economica è stata esacerbata tra settembre e ottobre 2019 dai problemi di valuta, da una crisi del grano e del gas e dalla totale impreparazione del governo nel fermare dei grossi incendi boschivi.
Questo grado di povertà stride con la ricchezza della classe dirigente. Il premier Saah Hariri, in carica da inizio 2019 e appartenente alla parte della popolazione di fede islamica sunnita, fa parte di una élite pari all’1% della popolazione, a cui appartengono anche islamici sciiti e cristiani maroniti, che detiene un quarto della ricchezza del Paese. Il Libano è infatti governato da un sistema confessionale stabilito negli accordi di Ta’if nel 1989. Questa intesa, negoziata dopo anni di guerra civile, ha stabilito un sistema settario di alternanza delle quote previste per i membri della classe politica appartenenti alle tre diverse religioni. I membri dell’élite politica, seppur diversi dal punto di vista della confessione religiosa, sono accomunati da salari elevatissimi, corruzione, scandali, sprechi di denaro e conflitti di interesse.
Il governo propone spesso nuove tasse per risanare lo schiacciante debito pubblico e la crisi fiscale che affliggono il Paese, spesso su prodotti ad alto consumo come benzina e tabacco. La proposta di tassare le chiamate Whatsapp è dunque solo l’ultima di una lunga serie, peraltro in un Paese dove già le tariffe telefoniche sono elevatissime e lo Stato ne trae già profitto, essendo le due compagnie telefoniche libanesi pubbliche. Le proteste sono iniziate il 17 ottobre, dopo una forte risposta negativa sulla rete. Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare, accusando Hariri e la classe politica di essere responsabile dei gravi problemi del Paese.
Le manifestazioni sono continuate nei giorni successivi nelle due città principali del Paese, Beirut e Tripoli. Le proteste sono iniziate in un clima pacifico, con la partecipazione di persone di ogni fede religiosa e famiglie con bambini, ma sono finite con violenti scontri tra manifestanti e polizia. Nella serata del 18 ottobre il premier Hariri ha tenuto un discorso alla nazione. Hariri ha accusato i partiti che sostengono il suo governo di bloccare le riforme necessarie al Paese. Egli ha inoltre minacciato di dimettersi entro tre giorni senza l’arrivo di proposte concrete per uscire dalla crisi.
La legge sulle chiamate WhatsApp è stata ritirata immediatamente. Per tentare di fermare le proteste sono state approvate nuove riforme, come un taglio del 50% degli stipendi dei parlamentari, la riduzione dei benefici garantiti ai funzionari statali e la promessa di approvare il bilancio per il 2020 senza introdurre nuove tasse. Questo non è tuttavia bastato a fermare le manifestazioni, tanto che il 29 ottobre Hariri ha rassegnato le sue dimissioni al presidente del Libano, Michel Aoun. I manifestanti hanno accolto con gioia le dimissioni, ma anche questo non è bastato a porre fine alle proteste. I libanesi chiedono un cambio radicale che sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del sistema politico settario, chiamato Muhasasa Ta’ifia, che da trent’anni governa il Paese.
Le proteste libanesi si inseriscono in quella che appare come una ripresa della primavera araba: le rivolte che nel 2011 avevano animato diversi Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sembrano aver conosciuto una ripresa negli ultimi mesi, con manifestazioni in Sudan, Algeria, Giordania, Egitto e Iraq. Anche nelle proteste libanesi i manifestanti hanno fatto uso dei social per organizzare le manifestazioni e degli stessi slogan e canti inneggianti alla rivoluzione. Non sono mancati gli omaggi al recente film Joker di Todd Philips, che vede il protagonista diventare il simbolo degli emarginati e dei poveri di Gotham City. Molti manifestanti si sono infatti dipinti il volto da clown con i colori della bandiera libanese per sottolineare il proprio messaggio contro la corruzione portata dal sistema settario.
Nonostante le dimissioni del Primo Ministro, le proteste sono proseguite anche nel mese di novembre in un Paese ormai paralizzato, dove banche e scuole sono ormai chiuse da giorni. Il 13 novembre un funzionario locale di un partito politico è stato ucciso dai militari durante le manifestazioni, dopo un discorso del presidente Aoun che ha riacceso la rabbia popolare e che ha riportato le persone in piazza. Il Presidente ha infatti annunciato alla nazione che coloro che non sono soddisfatti del Libano possono pure emigrare e ha evocato lo spettro di una guerra civile.
Il Paese è senza governo da settimane e ad accrescere le tensioni vi è anche il gruppo terrorista sciita Hezbollah che vorrebbe un ritorno di Hariri come primo ministro.
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