Il coaching è nato in ambito sportivo. Timothy Gallwey, celebre coach tennistico, pubblicò negli anni Settanta del ventesimo secolo Il gioco interiore del tennis. Un manuale in cui Gallwey illustrava le sue idee su come il funzionamento mentale influenzasse le prestazioni degli atleti e su come il modo di parlare dell’allenatore avesse un impatto decisivo sul modo di elaborare le informazioni, in un senso tale da migliorarne o peggiorarne la qualità degli allenamenti.
Gallwey estese il metodo ad altri sport. Negli anni Ottanta il coaching iniziò a essere praticato anche nelle organizzazioni, con lo scopo di migliorare la produttività e il benessere delle risorse umane e potenziare le capacità dei manager di gestire le persone in maniera efficace, efficiente, rispettosa. Di questo sviluppo nell’ambito manageriale uno dei grandi precursori è stato sir John Whitmore.
A tutt’oggi, gli ambiti più abituali del coaching, quelli con più evidenze di efficacia, sono quello sportivo e business.
Come possiamo definire quindi questa professione?
Il coaching è un processo collaborativo e orientato all’azione. Viene utilizzato per favorire il raggiungimento di obiettivi di breve, medio o lungo periodo, l’acquisizione o il potenziamento di un’abilità e la piena emersione delle potenzialità della persona in una qualche applicazione pratica.
Il concetto di obiettivo è centrale e ha dei capisaldi.
Innanzitutto, identificare gli esiti (outcomes) desiderati dal cliente e stabilire steps graduali e specifici per raggiungerli. Occorre poi potenziare la motivazione interna coltivando il senso di auto efficacia e l’uso delle forze del carattere. Un altro capisaldo consiste nell’identificare le risorse che l’ambiente mette a disposizione, così come gli ostacoli reali e percepiti. Da ultimo, agire monitorando in tempo reale gli sviluppi, aggiustando il tiro se necessario.
Tutto ciò può richiedere un lavoro sui valori e desideri del cliente, al fine di verificare l’allineamento (fondamentale per la riuscita) degli obiettivi con essi.
Durante questo percorso il coach rivolge costantemente l’attenzione a tre aspetti da coltivare nel cliente/coachee.
- Mastery: ovvero la consapevolezza e responsabilità del cliente di avere, o poter arrivare ad avere, la capacità di padroneggiare aspetti del suo ambiente per produrre i risultati voluti.
- Volition: ovvero la consapevolezza e responsabilità che raggiungere i propri obiettivi è in primis uno sforzo di volontà nel quale la fatica è un elemento inevitabile e sano.
- Self-autorship: ovvero la consapevolezza e responsabilità di essere, nei limiti del possibile, l’artefice del proprio destino, rifuggendo il fatalismo o l’iperresponsabilizzazione.
Fino alla fine degli anni Novanta i coach hanno lavorato attraverso metodologie che pur avendo un palese retroterra psicologico (e filosofico, manageriale, pedagogico) erano adottate spesso con scarsa consapevolezza delle loro radici, nella totale mancanza di ricerca sperimentale. Questa, per una disciplina che vuole essere credibile come produttrice di risultati misurabili, era una lacuna abbastanza significativa.
All’inizio del ventunesimo secolo le cose sono iniziate a cambiare. Esiste una moderata ricerca accademica sul coaching che ne attesta l’efficacia.
Il maggiore interessamento rispetto al passato da parte della psicologia per il benessere, le performance di picco, l’eccellenza, ha fatto sì che il coaching abbia iniziato ad avere un background scientifico più solido e più consapevole dei contributi di psicologia e neuroscienze.
Per questo oggi si parla di coaching psicologico, per distinguerlo dal coaching cui non si affianca questo aggettivo, nella misura in cui ancora rivendica un’indipendenza molto discutibile dalla psicologia (e dalle neuroscienze).
Il coaching psicologico, svolto da uno psicologo, si distingue comunque come intervento tanto dal counseling quanto dalla psicoterapia.
Counseling e psicoterapia
Rispetto al counseling, la differenza decisiva è che il coach non si pone in una posizione di esperto che è in grado di fornire consigli e soluzioni rispetto alle richieste del cliente. Si pone invece come facilitatore che, attraverso l’ascolto, i feedback, le domande, scopre insieme al cliente stesso la strada da seguire per la sua crescita. Inoltre, generalmente un percorso di counseling serve ad uscire da una crisi nel qui ed ora. Diversamente, il coaching richiede una condizione di partenza già sufficientemente buona con enfasi su obiettivi futuri che richiedono appunto questa metodologia.
Rispetto alla terapia, la differenza è ben più evidente. Un coach non cura le patologie psicologiche ma potenzia le risorse pre-esistenti, ancora non abbastanza sviluppate, oppure valorizza le capacità della persona per fargliene acquisire altre. Per esempio, un manager istruito e con buona autostima potrà migliorare le sue capacità comunicative facendo leva sull’ampiezza del suo vocabolario e sul suo senso di sicurezza.
Sia il coaching che il counseling si distinguono inoltre dalla terapia perché sono percorsi relativamente più brevi, che non affrontano se non episodicamente il passato della persona. Infine, counseling e terapia non si preoccupano direttamente di miglioramento delle prestazioni né hanno come oggetto primario la definizione di obiettivi e piani d’azione, come invece fa il coaching.
Ciò detto, senz’altro il coach condivide con i counselor e i terapeuti alcune competenze relazionali, di ascolto, e alcuni pericoli presenti in tutte le relazioni d’aiuto.
Per questo, in ogni caso, dovrebbe sempre avere solide competenze psicologiche. Questo anche perché sempre più spesso si parla di life coaching, in riferimento a interventi che riguardano aspetti della vita privata della persona. Per esempio. la qualità delle relazioni intime, il senso di autonomia, la difficoltà a darsi obiettivi di vita stimolanti.
Naturalmente, uno stesso professionista può avere i titoli per svolgere coaching, counseling e terapia, modellando l’intervento sulle richieste del cliente.
Il coaching è anche oggetto di critiche. Si dice sostenga un modello di cultura eccessivamente competitivo e performativo, che non esista un metodo adeguato per valutare le competenze dei professionisti coach non psicologi. Oppure, che spesso essi promettono risultati irraggiungibili e finiscono, se non sono anche formati come psicologi clinici, per esercitare in modo improprio una professione di aiuto.
In verità, il coaching psicologico crede in uno sviluppo della persona armonico e rispettoso dei propri e altrui valori e limiti. E chi lo svolge sa che se la domanda di coaching si trasforma ad esempio in domanda di counseling o terapia, come può succedere, allora è d’obbligo l’invio a un altro professionsta (se il coach non ha anche le qualifiche necessarie per svolgere questi interventi).
Sicuramente il coaching è una disciplina giovane, e in quanto tale ha dei limiti. Ed è verosimile che come in tutte le professioni alcuni operatori possano violarne la deontologia. Ma non si può certo generalizzare questo a tutta una categoria che risponde a una domanda di supporto alla crescita personale che se continua a esserci, evidentemente, ha le sue ragioni.
L’auspicio è che la ricerca e la pratica continuino a farla crescere nel modo più sano.
Palmer S., Whybrow A. (a cura di), (2008). Handbook of Coaching Psychology,
Londra, Routledge.
Spence G.B., Grant A. M. (2013). Coaching and Well Being: a Brief Review of
Existing Evidence, Relevant Theory, and Implications for Practitioners, in David, S,
Boniwell, I., Conley Ayers A. (a cura di), The Oxford Handbook of Happiness, Oxford,
Oxford University Press.
Whitmore, J. (1992). Coaching for Performance: GROWing Human Potential and
Purpose – The Principles and Practice of Coaching and Leadership, Nicholas Brealey
Publishing.