Quante volte la stazione ha accolto i silenzi dei passanti, quante volte il treno li ha portati dove volevano e, in tutto questo tempo, l’arte ha immortalato quei momenti, come frammenti tangibili di una temporalità sospesa.
La stazione è un luogo di passaggio. Un limbo tra due destinazioni che accoglie sguardi inconsciamente scambiati e saluti sopiti, ammorbati nel grigiore mattutino. Lì si nascondono i treni, oggetto di desiderio del pendolare, giganti di ferro che troneggiano tra i binari.
L’arte li immortala sin da quel Treno in arrivo alla stazione di La Ciotat, dei fratelli Lumière, pionieri della settima arte, nel 1896. Se ne esalta la maestosità, l’irruenza con cui quella forza trainante, ancora sconosciuta, rompe la quarta parete e stupisce lo spettatore. Proprio su quello schermo, dove nel 1903 traspare il lato più oscuro e pericoloso del treno con The Great Train Robbery di E.S. Porter.
Ma se il cinema si nutre del movimento, l’arte lo lascia emergere allusivamente dal connubio di linee e colori che si stagliano sulla tela. I primi a cogliere la potenzialità del dinamismo sono i futuristi.
Esaltatori famelici della bellezza della velocità, del portento tecnologico. Da quel momento il treno diventa strumento imprescindibile per l’uomo che viaggia. Per questo Fortunato Depero, nella sua opera Il Treno, dipinge un immenso sole che sovrasta il veicolo, un pompelmo cerchiato concentricamente che illumina la strada del progresso.
L’artista però commette un errore nel ritrarre una locomotiva a vapore quando in realtà, nel 1926, i treni erano già elettrici.
L’elogio alla modernità e al movimento è però figlio di una stagione in cui ciò che affascinava era l’atmosfera, fatta di silenzi, che circondava le stazioni.
Così Claude Monet si fa il portavoce di una stagione ritrattistica in cui le stazioni e i treni rimangono labili alla vista, offuscati dalla neve e dal fumo emanato dal carbone.
In realtà però non ci serve vedere, perché avvertiamo tutto sensorialmente. C’è l’umidità mattutina, il freddo pungente che scava nelle ossa, l’odore della legna che arde. È tutto profondamente tangibile, anche se la stazione appare come un’architettura evanescente. Riusciamo a sentire la cappa atmosferica che avvolge lo spazio, ma non la frenesia futurista di cui invece si nutre la quotidianità metropolitana. Gli scatti di Monet sono frammenti rubati di spazi solo sognati, estrapolati da uno scatto da cartolina.
Le ferrovie sono qualcosa di sorprendentemente silenzioso, quando non ci passa sopra il treno
(Haruki Murakami).
Per rendere più fisico il treno, al di là della sua manipolazione artistica, bisogna viverlo. Non accalcati tra la folla del lunedì mattina, stretti nelle proprie cuffiette pensando a qualcosa che sia altro da quel momento.
Vivere il treno come un’opera d’arte invece, è possibile. Si tratta di un’esperienza contemplativa e fruitiva adottata dal Treno delle Arti e delle Civiltà, che collega le zone de L’Ile de France di Parigi. A bordo, il Museo Quai Branly- Jacques Chirac, comprensivo di 400 opere d’arte divise tra i cinque continenti per provenienza. In un percorso di 56 km, dunque, lo spettatore può vivere un viaggio piacevole, disinteressato, senza lo sguardo attaccato al finestrino, ma con la mente proiettata in un universo pittorico e scultoreo intercontinentale.
Per ogni treno su cui si sale, però, si abbandona una stazione. Il luogo dell’attesa per eccellenza, dove si respira l’atmosfera de Gli Stati D’animo di Umberto Boccioni, il trittico che comprende Gli addii, Quelli che vanno, Quelli che restano. Ma mentre gli addii sono immortalati in un abbraccio avvolgente e le partenze sfuggono alla vista nel caotico dinamismo del loro compiersi, coloro che restano sono anime fluttuanti. Corpi deprivati di parte della loro essenza, che si trascinano a testa bassa in un limbo indefinito. Non viene data alcuna connotazione all’ambiente circostante, rimane neutro, anonimo. E si manifesta quel grigiore senza tempo che sembra rendere tutte le stazioni uguali.
La vita è il treno, non la stazione ferroviaria
(Paulo Coelho).
Anche se non devono necessariamente essere luoghi inospitali da cui sfuggire mentre si controlla il ticchettio dell’orologio. Le stazioni possono essere predisposte per l’accoglienza grazie ancora una volta al contributo dell’arte. Sono i murales alle pareti o i graffiti sulle colonne a raccontare le storie dei loro creatori e dei pendolari che tutti i giorni le osservano.
Basta pensare all’opera Accumulation alla Stazione Gare de Paris Nord, in cui un fattorino viene ritratto ironicamente con il cumulo di valigie che deve portare e tra le quali spicca anche una nonnina.
I colori hanno un ruolo terapeutico, rallegrano la giornata del pendolare e ne accompagnano gli spostamenti, come dimostra il lungo percorso a murales della Stazione di Milano Porta Garibaldi.
C’è quindi ancora qualcosa di magico nell’attesa del treno, nella stasi sospesa nel tempo e dello spazio della stazione. Dove non importa nulla di quello che esiste fuori, conta solamente il qui e ora, quei cinque minuti di ritardo segnati sul tabellone, quell’uomo che corre sulle scale con il fiatone e la speranza nello sguardo. Piccoli spostamenti di una folla che si muove come un unico uomo nello spazio.
Un luogo, la stazione, che accoglie tutti indistintamente. E i treni, silenziosi esecutori, che avvolgono il pendolare e lo portano là dove lo aspetta qualcosa di nuovo oppure di tediosamente definito.