Quando si parla di sperimentazione animale, il pensiero va subito ad immagini di animali agonizzanti e provati dalle sofferenze inflitte loro. Alle loro spalle, personale in camice bianco, sereno e impassibile, ma ben attrezzato con strumenti di morte. La perfetta scena del crimine, insomma. Siamo sicuri che sia davvero così?
Scarsa informazione
L’immaginario collettivo non è completamente l’opposto della realtà dei fatti, se si considera che gli animali da laboratorio vivono in cattività e sono sottoposti a interventi non sempre privi di sofferenze. Tuttavia, ridurre la ricerca scientifica a test dolorosi o i ricercatori a perfidi dottor Frankenstein è quantomeno scorretto. A trarre in inganno è innanzitutto una scarsa conoscenza del settore, sia negli aspetti normativi sia in quelli scientifici.
Molte delle procedure biasimate dall’opinione pubblica sono vietate o fortemente limitate per legge. Si pensi alla vivisezione, intesa come dissezione da parte a parte di un animale vivo e cosciente: è una pratica ormai in disuso da tempo (per capirci, si è diffusa nel Seicento, per poi entrare gradualmente in crisi già nei due secoli successivi). Al contrario, la chirurgia sugli animali vivi funziona come quella su noi umani, ovvero sotto anestesia. D’altronde che senso e utilità potrebbe avere “vivisezionare” un essere che morirà di dolore nel giro di qualche minuto?
Stesso discorso vale per strutture in cui gli animali vengono maltrattati, per test che potevano essere eseguiti con metodi alternativi, e così via. Sfatiamo subito questi miti: ciò non rappresenta la ricerca, né nella sua attuale prassi legale, né nei suoi principi di ogni tempo. Scagliarsi contro realtà di quel tipo è scontato e dovuto, visto che sono irregolari. Scagliarsi contro ricerca e ricercatori pensando che lavorino così, mirando alla tortura di esseri viventi (invece che a migliorare la loro vita), è andare ampiamente fuori strada.
Le normative
L’utilizzo di animali a scopo di ricerca e studio in ambito scientifico è attualmente regolamentato dalla Direttiva europea 2010/63/EU, recepita in Italia con il decreto legislativo 26/2014. Il principio di fondo è la cosiddetta “regola delle 3R”, così formulata nel 1959 da W. M. S. Russell e R. L. Burch:
Rimpiazzamento (Replacement), sostituzione con metodi alternativi.
Riduzione (Reduction), riduzione del numero di animali.
Raffinamento (Refinement), miglioramento delle condizioni degli animali.
Ovvero: quando è possibile utilizzare un metodo alternativo per lo stesso scopo, farlo. Se non è possibile, sperimentare, ma sul minor numero possibile di animali (dove per “possibile” si intende “senza compromettere gli obiettivi del progetto”) e facendoli vivere prima, durante e dopo nelle migliori condizioni possibili. Questo modus operandi è finalizzato alla tutela dell’animale.
(Art. 13) Gli animali hanno un valore intrinseco che deve essere rispettato. L’uso degli animali nelle procedure suscita anche preoccupazioni etiche nell’opinione pubblica. Pertanto, gli animali dovrebbero sempre essere trattati come creature senzienti.
La direttiva indica la direzione delle norme che i singoli Paesi membri devono adottare nella propria legislazione. Devono impedire che la scelta dell’animale ricada su specie in via di estinzione e limitare fortemente i casi in cui può ricadere su specie particolarmente vicine all’uomo (cani, gatti e primati non umani possono essere scelti solo quando è scientificamente dimostrato che quella ricerca non può dare risultati attendibili se condotta su altre specie). Occorre evitare l’utilizzo di animali selvatici, per via dello stress e dei rischi legati alla cattura e al nuovo stile di vita, oltre che una minor sicurezza ai fini della ricerca stessa.
Inoltre, valutare caso per caso un eventuale riutilizzo dello stesso animale per ridurre il numero di animali utilizzato a questi fini, ma dando il giusto peso alle sofferenze da lui già sopportate; sopprimerlo qualora il suo futuro benessere fosse stato compromesso (eutanasia).
La legge italiana è anche più restrittiva di quella europea. Ad esempio vieta gli xenotrapianti (cioè di organi provenienti da specie animali differenti da quella di arrivo). Non permette di sperimentare su animali sostanze d’abuso, droga e tabacco, né di allevare animali appositamente destinati alla sperimentazione (i quali devono avere particolari caratteristiche e, ricordiamo, non possono essere animali selvatici).
Il caso Green Hill
In quest’ultima decisione riguardante gli allevamenti ha inciso molto una vicenda particolarmente seguita negli anni.
Era il 2012 quando un gruppo di attivisti contrari alla sperimentazione animale irruppe nell’allevamento Green Hill di Montichiari, in provincia di Brescia. Si trattava dell’unico allevamento in Italia di cani – beagle per la precisione – destinati ai laboratori. A seguito del furto – o liberazione, a seconda del punto di vista – di alcuni cagnolini da parte degli attivisti e soprattutto a seguito della loro segnalazione di anomalie, il centro fu costretto a chiudere. La vicenda si è conclusa questa estate (luglio 2019) con la condanna di uno dei veterinari della struttura per maltrattamento e uccisione di animali.
L’intraprendenza degli attivisti merita senza dubbio il plauso per aver smascherato una situazione di illegalità che nuoceva al benessere di oltre duemila cagnolini. Anche il conseguente divieto di allevare animali da laboratorio nel nostro Paese fu salutato da molti animalisti come una vittoria, ma ciò non è così facile da dire.
Per quanto severamente regolamentata, la sperimentazione sugli animali non è vietata in Italia, dunque soggetti su cui operare restano necessari. Il risultato è che semplicemente li prendiamo da allevamenti esteri. Gli svantaggi sono che non è facile fare controlli su aziende straniere, e che l’animale dovrà fare molta più strada per arrivare in laboratorio. Tutto va a discapito dell’animale stesso, che sarà più a rischio e più stressato. Questo passo avanti verso l’obiettivo dello stop totale dei test sugli animali si è rivelato, per il momento, un passo indietro per il loro benessere e la loro tutela.
Compromessi
Finché la sperimentazione animale sarà permessa bisognerà quindi continuare ad adottare tutti gli accorgimenti necessari a garantire un’elevata qualità della vita di questi animali.
Lo stress da viaggio può sembrare poca cosa in confronto ad un esperimento in laboratorio, ma non lo è. La differenza, forse sottile, sta nel fatto che il primo è una sofferenza gratuita, non necessaria ed inutile, mentre il secondo si rivela ancora indispensabile per la tutela della salute umana, animale e dell’ambiente.
Il mondo scientifico mira all’abbandono della sperimentazione sugli animali, non appena sarà possibile farne realmente a meno. È esplicitamente dichiarato anche nella Direttiva europea del 2010. A ben guardare si tratta di un notevole – e dimenticato – punto di contatto tra ricercatori e animalisti. Perché non raggiungere questo obiettivo comune insieme?
Ad ogni modo, il nodo più difficile da sciogliere resta la questione etica, che vede le due parti ancora troppo lontane. Al punto che persino dell’effettiva necessità di testare sugli animali e dei metodi alternativi si discute molto. Ne parleremo nella seconda parte.