Non mi devo innamorare, lui aveva aperto la porta e in una frazione di secondo i raggi si erano infiltrati nella stanza buia, avevano attraversato il suo corpo e si erano posati, rifrangendosi, sul pavimento di legno.
Non mi devo innamorare, e forse mentre se lo diceva, mentre lasciava che la luce del sole di quella mattina la inondasse, forse era già successo.
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Si era provata il vestito bianco, lungo, con lo strascico di pizzo e i ricami sottili sulle maniche. Si era guardata e riguardata nei tre riflessi degli specchi del negozio, sotto agli occhi di sua madre, commossa, e della commessa, compunta e sorridente.
Le pareti color pastello, le luci morbide ma luminose allo stesso tempo, bianche, quasi accecanti. Tutto brillava. I manichini eleganti, sottili, sinuosi, con addosso i vestiti più belli. I vasi di fiori negli angoli e ovunque, il rosa confetto, il lilla chiaro, l’azzurro cielo.
Questo deve essere il paradiso, aveva pensato.
Poi distrattamente, guardandosi allo specchio, si era tirata con i denti una pellicina dell’indice destro e una macchia rossa, piccola ma vistosa, si era allargata velocemente sul tessuto immacolato.
Nel camerino si era fatta aiutare dalla ragazza in tailleur per chiudere l’ultimo bottoncino dietro al collo, sotto la nuca.
«Le sta benissimo, penso che questo sia il suo.»
«E’ il mio.»
Girando ancora una volta su se stessa, controllando con attenzione il modo in cui gli strati di seta e pizzo le cadevano lungo i fianchi, aveva provato a immaginare la sua espressione, e aveva sorriso ciecamente, stupidamente, ingenuamente.
Si era innamorata di lui, quel mattino di tanti anni fa, senza saperlo.
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«Mi dispiace. Mi dispiace da morire. Credimi.»
Lui se n’era andato il giorno prima del matrimonio, in una mattina tiepida di inizio ottobre. Aveva preso le sue poche cose e si era chiuso alle spalle la porta del loro appartamento.
Lei era rimasta immobile, con i capelli ridicolmente appuntati sulla testa in grandi boccoli per il giorno dopo, le unghie color perla e la pelle luminosa. Si era seduta sul bordo del divano e non si era più alzata.
Non mi devo innamorare, se l’era detto, lo sapeva già. Sapeva già che sarebbe andata a finire così. Ma non aveva potuto farci nulla.
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In silenzio, senza scambiarsi una sola parola, muovevano su e giù i pennelli imbevuti di vernice bianca. La sera scorreva, lentamente ma con costanza. Avevano iniziato a dipingere le sbarre del cancello verso le undici, partendo da sinistra. Era ormai l’una e loro, con addosso delle tute bianche troppo grandi e le scarpe avvolte in sottili sacchetti trasparenti per non lasciare impronte, continuavano a dare il bianco al cancello del negozio di abiti da sposa. Di giorno, con i clienti, era impossibile fare quel lavoro. Avevano aspettato che la gente si ritirasse in casa e che il sole calasse, per soffrire meno le distrazioni e il caldo.
Impassibili, mentre i ragazzi e le ragazze del pub accanto bevevano le loro birre e chiacchieravano, avevano continuato a muovere lentamente i loro pennelli, a coprire col bianco lucido la ruggine e il grigiore del ferro vecchio.
Così tutto sarebbe stato a posto, bello, pulito, impeccabile, elegante. I cancelli bianchi e candidi sotto l’insegna rosa pastello, la scritta in corsivo elegante, Gabriella abiti da sposa, e dietro alle vetrine sempre lucide e pulite, i manichini come steli di fiori con addosso i più bei vestiti di tutta la città.
Quella tuta bianca, più grande di lei di almeno due taglie, che le copriva il corpo dal collo fino alle caviglie, esattamente come quel bellissimo e inutile vestito che aveva provato anni fa macchiandolo di sangue, era ora il suo unico abito da sposa, e lei nella notte, in silenzio, ora nascondeva con la vernice bianca la durezza e la freddezza del ferro, perché era giusto che le sue clienti innamorate potessero continuare a sognare.
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