All’inizio di questo mese sono stati annunciati i due vincitori del Premio Nobel per la letteratura (di cui abbiamo parlato qui). Dopo una lunga attesa – erano infatti passati due anni dall’ultima premiazione – finalmente i nomi: Olga Tokarczuc e Peter Handke. Due nomi che non sono passati inosservati, soprattutto quello di Handke, che ha suscitato non poche critiche e perplessità.
Lo scrittore di origini austriache è stato al centro dell’attenzione a lungo, diventando una tra le figure più controverse della scena letteraria contemporanea. Handke ha in passato attirato l’attenzione su di sé per alcune opinioni politiche non in linea con il sentire comune e con lo svolgimento di alcuni fatti. Di particolare rilevanza la sua amicizia con Slobodan Milosevic. Ma, per capire fino in fondo la complessità del polverone mediatico che ha investito Handke, è necessario chiarire i fatti di cui si parla e le idee che è accusato di sostenere.
Milosevic ha ricoperto la carica di presidente della Serbia dal 1989 al 1997 e quella di presidente della Repubblica federale di Jugoslavia dal 1997 al 2000. Venne accusato di crimini contro l’umanità in quanto fu uno dei principali protagonisti delle guerre nella ex Jugoslavia, nonché responsabile delle operazioni di pulizia etnica che vennero condotte dall’esercito jugoslavo ai danni delle minoranze musulmane presenti in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo. Alla sua morte, avvenuta nel 2006, si trovava ancora sotto accusa del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, in attesa di una sentenza.
Tra gli orrori portati avanti da Milosevic anche il terribile massacro di Srebrenica, avvenuto nel 1995. Ed è proprio durante quegli anni che Handke scriveva Un viaggio d’inverno, ovvero giustizia per la Serbia, edito da Einaudi. Si tratta di un breve pamphlet in cui lo scrittore austriaco, rivendicando le sue origini materne, accusa la stampa occidentale – in particolare quella francese e tedesca – di aver criminalizzato eccessivamente la Serbia e la sua popolazione, costruendo un nemico comune. Handke in questa breve opera saggistica, sfruttando come pretesto le forme della letteratura odeporica, cerca di analizzare le cause culturali, psicologiche e politiche alla base di questo procedimento portato avanti dalla stampa europea.
Insomma quello condotto dallo scrittore, non solo in alcune delle sue opere ma anche nelle dichiarazioni pubbliche, sembrerebbe un tentativo di capovolgere in qualche modo quel bipolarismo vittima-carnefice di cui ci si serve per interpretare i fatti – certo forse generalizzando talvolta in maniera eccessiva – e trarre delle conclusioni forzatamente logiche. In questo caso, come in molti altri, i fatti non sono discutibili: ci sono state delle vittime e dei responsabili, e questo non si può negare. Di fronte all’accusa di negazionismo più volte rivolta ad Handke, lo scrittore risponde che il suo non è un modo per negare gli avvenimenti ma per trovare un equilibrio. Ritiene infatti scorretto che gli unici a essere sottoposti a gogna mediatica siano i serbi, in quanto le atrocità commesse dai musulmani e dai croati sono di pari se non superiore entità.
Gli episodi che vedono protagonista Handke in relazione alle vicende dell’ex Jugoslavia non finiscono qui: non denunciò né si espresse sulla “pulizia etnica” avvenuta nel 1999 da parte dei serbi ai danni degli albanesi del Kosovo. Successivamente, cercò di sminuire l’autorità del Tribunale Internazionale dell’Aja che si stava occupando di processare Milosevic e, alla sua morte, tenne un discorso di commiato in suo onore.
Questi fatti portano a comprendere perché l’assegnazione del Nobel per la letteratura proprio a Peter Handke abbia sollevato dubbi e proteste da ogni dove. Molte voci si sono levate per opporsi a questa decisione: tra queste, intellettuali e accademici che già in passato avevano contestato lo scrittore austriaco, come Salman Rushdie, Jonathan Littell, Susan Sotag, solo per citarne alcuni; associazioni che si occupano delle vittime della guerra nei paesi dell’ex Jugoslavia e persino personalità politiche come Edi Rama, attuale presidente dell’Albania o Hashim Thaci, presidente del Kosovo.
La portata artistica dell’opera di Handke non è certo da mettere in discussione, così come la competenza del team di esperti che si occupa delle assegnazioni del Premio Nobel. Si può però trovare in questa decisione uno spunto di riflessione: la personalità di Peter Handke è sicuramente controversa e la decisione di premiarlo con un riconoscimento così importante ha giustamente sollevato perplessità. Si può separare l’uomo dall’artista, l’autore dalle sue opinioni politiche? Il Premio Nobel, a differenza di molti premi letterari che si occupano di riconoscere l’importanza di una singola opera, è un premio che viene conferito all’autore in quanto tale, ovviamente sempre in relazione ai suoi meriti artistici. Ma rimane comunque un riconoscimento personale e non legato a un singolo libro in particolare.
L’Accademia svedese, dopo aver ricevuto molte critiche, ha deciso di difendere la sua decisione, come riportato in un articolo uscito sul quotidiano Dagens Nyheter. Il segretario permanente dell’Accademia Mats Malm si dice consapevole dei “commenti provocatori, inopportuni e poco chiari su questioni politiche” fatti da Handke nel corso degli anni. Al contempo, però, sostiene che nelle sue opere non sia presente nulla che costituisca – esplicitamente o implicitamente – un attacco alla società civile o una mancanza di rispetto nei confronti dell’uguaglianza. Lo stesso Peter Handke ammette di aver parlato “solo da scrittore”, ribadendo come quelle espresse non siano delle posizioni politiche.