La scienza della felicità è pericolosa? (seconda parte)

La felicità sembra essere ormai argomento al centro della cultura pop. I libri che ne parlano sono ormai tantissimi, le frasi motivazionali su Facebook e Instagram abbondano, i corsi su come essere felici anche.

Nella prima parte del’articolo abbiamo visto come due importanti sociologi, Edgar Cabanas ed Eva Illouz, affrontino il tema, sostenendo come a partire dalle ricerche fatte nelle università la felicità si sia imposta come valore centrale nella cultura contemporanea. Con il sostegno (non è chiaro quanto consapevole) di chi, in ambito politico ed economico, è interessato a mantenere in forze l’ideologia neoliberista, che andrebbe a braccetto con la visione della felicità frutto unicamente dello sforzo individuale, mediante il continuo lavoro di aggiustamento dei propri atteggiamenti e potenziamento delle proprie capacità.

I due autori criticano il primato della felicità così intesa, sostenendo di fatto, che essa finisca per trascurare gravemente le disuguaglianze sociali e il loro impatto sulle reali possibilità di auto realizzazione dei singoli. Deresponsabilizza, inoltre, gli attori politici che dovrebbero avere a cuore la giustizia sociale, responsabilizzando invece in maniera eccessiva le persone per i loro risultati e i livelli di benessere percepiti.

Oltretutto, la psicologia positiva non darebbe prove sufficientemente convincenti delle sue tesi. Prima tra tutte, per esempio, quella di Martin Seligman, che sostiene come le circostanze, l’ambiente, determinerebbero solo al 10-15% la felicità percepita, che dipenderebbe invece per il 40% dalla volontà individuale e per il 50% da un set di base genetico. Sono accuse molto importanti, a tratti apocalittiche, mosse da ricercatori di stimati istituti ed università europei (con la Illouz che insegna anche a Gerusalemme), fatte, a loro volta, verso ricercatori di stimati istituti ed università soprattutto (ma non solo) americani. Insomma, è giusto tener presente che sembra essere in gioco una disputa scientifica e culturale tra due modelli che al netto della globalizzazione conservano ancora delle differenze nel modo di vedere il mondo.

Come stanno le cose?

Il libro di Illouz e Cabanas è davvero impressionante nel modo in cui ricostruisce come si sia espanso attraverso generosi finanziamenti il movimento psicologico ed economico che all’interno delle università ha messo al centro lo studio della felicità. Al tempo stesso, le ipotesi sociologiche su come il retroterra culturale degli Stati Uniti abbia reso possibile che proprio da lì tutto partisse, sono davvero interessanti e credibili. E non si fa fatica a essere d’accordo sull’esistenza di un intreccio naturale tra ricerca accademica, interessi politici ed economici e cultura. Che mettendo al centro della felicità personale l’atteggiamento individuale, la volontà del singolo, si rischi di perdere di vista il ruolo che il contesto socio-economico ha nel determinare le scelte realmente a disposizione delle persone (di quelle non benestanti e potenti), è altrettanto condivisibile.

È vero che i cambiamenti sociali significativi richiedono tempi lunghissimi, mentre quelli sotto il controllo dell’individuo sono raggiungibili in modo relativamente più facile e quindi sono più gratificanti. Ciò non toglie che gli uni e gli altri possano essere perseguiti insieme.

Ma la psicologia positiva non nega questa possibilità. Anzi, sottolinea come una vita felice sia una vita ricca di significato, e come il significato dipenda dal fare qualcosa che, coerentemente con i propri valori, trascenda se stessi in vista di un bene più ampio. Di fatto dunque riconosce il valore dell’azione sociale (così intesa). Inoltre gli psicologi positivi sottolineano spesso quanto sia importante per una vita soddisfacente il fatto di avere relazioni intime significative. Importanza delle relazioni e significati e scopi trascendenti non sono forse il contrario di un atteggiamento individualista avvitato su se stessi?

Cabanas e Illouz imputano alla psicologia positiva di produrre ricerche scientifiche facilmente confutabili, come se in generale le scienze sociali e in particolare la psicologia producessero teorie inoppugnabili. La psicologia positiva è una branca giovanissima, non è giusto aspettarsi che produca risultati più eclatanti di altre. Né le si può fare una colpa se politici e business man hanno visto in lei una partner “d’affari” (affari, che come tanti altri, potranno avere effetti benefici o meno per la collettività, non è forse presto per dirlo?).

Infine, Cabanas e Illouz banalizzano in maniera davvero superficiale la diffusione della mindfulness (che comunque quando è nata la psicologia positiva si stava già diffondendo, semmai la psicologia positiva ha avuto il merito di finanziare ulteriori ricerche su di essa). Rivelano dunque una volontà polemica in parte viziata da negativi pregiudizi ideologici. Insomma, l’impressione finale è che Happycracy sia comunque un testo da leggere. Dentro ci troverà spunti interessanti chi s’interessa di psicologia, sociologia, filosofia, con luci e ombre in base all’inevitabile soggettività del giudizio.


FONTI
Cabanas E., Illouz E., Happycracy – Come la scienza della felicità  controlla le nostre vite


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