Negli ultimi vent’anni le ricerche di psicologia sul tema della felicità e del funzionamento ottimale dell’uomo sono aumentate a dismisura. Hanno esteso infatti la loro risonanza agli ambiti della politica, dell’economia, dell’istruzione e della cultura pop.
Sempre più spesso leggiamo, sulle nostre bacheche social, articoli di webzine e suggerimenti motivazionali che, se ben scritti, divulgano in maniera semplice le ricerche accademiche. Nel peggiore dei casi si rifanno a guru del pensiero positivo le cui considerazioni sono il più delle volte strampalate.
Come tutte le tematiche culturalmente al centro dell’attenzione, anche la ricerca della felicità è diventata spunto di riflessione per chi, alla fiducia nei confronti di ciò che tale ricerca può portare, contrappone un atteggiamento scettico e critico – che se argomentato non può fare altro che bene a una comprensione equilibrata del fenomeno. È questo il caso di un libro scritto a quattro mani da due eminenti sociologi contemporanei. Edgar Cabanas ed Eva Illouz sono gli autori di Happycracy (sottotitolo: come la scienza della felicità controlla le nostre vite), tradotto in italiano dall’editore Codice. L’impressione è che ci si trovi di fronte a un testo importante e complesso.
Qual è la tesi di fondo del libro?
La psicologia positiva, come branca della ricerca psicologica sorta alla fine dello scorso secolo, ha prodotto ricerche la cui validità è traballante. Ciò nonostante è diventata (consapevolmente?) uno strumento di legittimazione di una cultura, una politica e un’economia neoliberista. Una politica che vede il raggiungimento del benessere come frutto del giusto atteggiamento individuale e non della modificazione strutturale delle disuguaglianze attraverso interventi politici ed economici. In altre parole, la psicologia positiva, secondo gli autori, rifletterebbe il tipico atteggiamento americano per cui è il singolo che deve farcela da solo a raggiungere i suoi obiettivi, la società è una inutile astrazione e non è rilevante impegnarsi a ridurre le disuguaglianze attraverso politiche egualitarie.
Il fatto che la felicità si sia imposta nel dibattito pubblico più di altri valori, come la solidarietà, la giustizia, la lealtà, è così spiegato dagli autori.
A nostro avviso, uno dei motivi di tale successo è che si tratta di un concetto saturo di valori individualisti, in base ai quali il sé individuale diventa il bene supremo, e i gruppi e le società si riducono ad aggregati di volontà autonome. Nello specifico si è rivelato utilissimo per ravvivare, legittimare e istituzionalizzare l’individualismo in termini non ideologici, attraverso il linguaggio neutrale e autorevole della scienza (…) Sotto la veste del positivismo, lo studio scientifico della felicità umana ha trasformato questa nozione in un potente strumento ideologico, che sottolinea la responsabilità individuale per il proprio destino e veicola valori fortemente individualisti, camuffandoli da teorie psicologiche ed economiche.
Le perplessità di Cabanas e Illouz riguardano quindi quattro aspetti:
- La legittimità di un discorso scientifico sulla felicità (possiamo essere sicuri che si possa studiare in laboratorio?).
- La reale utilità di questo discorso (giova davvero alle persone o solo a chi vuole scaricare sui singoli le responsabilità della politica e dell’economia?).
- Gli effetti (è possibile che mettendo al centro dei propri pensieri la felicità, le persone ne diventino ossessionate, esagerando la mania di migliorare la propria condizione fisica, mentale, di status?).
- L’eticità (nella misura in cui si identifica la felicità con la bontà, la produttività, il funzionamento “sano”, come considerare la sofferenza? Qualcosa di sbagliato? Ciò sarebbe inverosimile, ingiusto ed assurdo).
Capitolo dopo capitolo, Cabanas e Illouz affrontano tutte queste sfaccettature del discorso. Prendono abbondantemente in giro Martin Seligman, influente psicologo e accademico e americano nonché “leader” del movimento della psicologia positiva. Mettono insieme i testi che dimostrano come, grazie a finanziamenti pubblici e privati, la psicologia positiva si sia potuta espandere così velocemente.
Questo con conseguenze negative. Secondo gli autori, nei contesti professionali l’ideologia della felicità scaricherebbe sulle spalle dei dipendenti gli scarsi risultati e gli elevati livelli di stress, invece di imputarli a una gestione miope e una cultura d’impresa discutibili. A livello di stile di vita, favorirebbe il business della felicità: applicazioni, servizi, corsi che promettono di dotare le persone degli strumenti per essere finalmente soddisfatti di sé. A livello psicologico, aumenterebbe paradossalmente i sensi di colpa individuali, sottintendendo che il proprio benessere dipende unicamente da sé, e che è ovvio che se ci si sente insoddisfatti la colpa è la propria.
Le cose stanno così, o questa visione è decisamente apocalittica?
Lo vediamo nella seconda parte dell’articolo.
FONTI
Cabanas E., Illouz E., Happycracy – Come la scienza della felicità controlla le nostre vite
CREDITS
Copertina
Foto scattata dall’autore dell’articolo