La tanatofobia: la morte come paura e ossessione

La tanatofobia (dal greco thanatos che significa morte, e phobos che significa paura) indica una morbosa paura della morte e dell’idea della propria mortalità, e delle manifestazioni ad essa collegate. Da non confondersi con necrofobia che indica la paura dei cadaveri. Tale fobia può sorgere in seguito a traumi subiti, per motivi emozionali o nevrotici. Nelle persone tanatofobiche tutto ciò che riporta anche remotamente alla morte è causa di attacchi di panico e profonda angoscia.

La morte è il motore da cui si muovono le più grandi filosofie della storia. Un’ineluttabilità forzata per l’uomo, contro cui non può combattere: non sa cosa si cela e se si cela un quid dietro la sua finitudo. Infatti le grandi filosofie si sono sempre rapportate con l’ignoto, con l’infinito oltre la siepe. Hanno tentanto di dare risposte all’umanità, hanno dato vita a risposte così vicine eppure ineffabili per il destino dell’uomo, che deve piegarsi dinnanzi alla morte.

E l’uomo è spaventato da questa sorte. Si aggrappa instancabilmente alla vita, ai sensi, al pensiero. Cosa si è oltre la finitezza? Si percepisce l’infinito ma non si è assoluti: “io nel pensier mi fingo“, scolpiva Leopardi nell’Infinito. Si può solo fingere di essere illimitati perché la natura ha dato un tempo a cui bisogna rispondere.

Così nel corso dei secoli, la filosofia ha cercato di porre rimedio al grande tabù dell’umanità: la paura della morte. Una paura che può trasformarsi in ossessione, generare ansia, esasperare e sfociare nella fobia. La fobia di morire è detta Tanatofobia: come si legge dalla definizione di Wikipedia, la paura (phobos) della morte (thanatos) che si trasforma in un pensiero morboso sull’ineluttabile destino di deterioramento dell’uomo.

La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla, né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non ci sono più.

Così scriveva Epicuro nelle sue Lettere sulla felicità: la morte in sé non è un problema, ma il pensiero che l’uomo ha di essa durante la sua vita lo è. Inoltre quando c’è vita, non esiste morte e viceversa. Lo scopo dell’epicureismo era la ricerca del piacere e della felicità, liberandosi delle paure:Non sono da temere gli dei; non è cosa di cui si debba stare in sospetto la morte; il bene è facile a procurarsi; facile a tollerarsi il male“.

Prima di Epicuro, a stravolgere la concezione del dissolvimento vitale, è stato Platone: scindendo la realtà sensibile dal modello intellegibile che risiede nel mondo delle idee, Platone dichiara che solo l’anima può conoscere l’eidos, attraverso il salto nel mondo intellegibile. L’immortalità dell’anima è un tema cardine del platonismo: l’anima compie un viaggio dal mondo delle cose al mondo delle idee. Nel Fedone infatti Platone spiega perché l’anima è immortale, affrontando il tema della fine della vita. Platone mette al centro della vita dell’uomo la sua fine: la morte dà senso alla vita. Infatti è esaltata come momento di liberazione dell’anima dal corpo. Si vive per la morte: bisogna educare l’anima al bello e al giusto. Tuttavia vivere per morire non significa temere la morte stessa, quanto vivere assaporando la bellezza. 

“Mors dolorum omnium exsolutio est”: anche Seneca stoicamente interpreta la morte come liberazione da ogni sofferenza prefissandola come una meta di un percorso rapido.

Se fino al medioevo, la morte, anche nella tradizione della filosofia greca, si pone come un traguardo liberatorio, dal Rinascimento la morte sarà vissuta con dolore, nostalgia, paura, e ribellione. Uno stauts che si affermerà lungo tutta la tradizione filosofica successiva, in primis nella filosofia romantica.

Ne Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer scrive:

L’ansia per la conservazione di questa sua esistenza riempie di regola l’intera vita dell’uomo. La vita della maggioranza non è che continua battaglia per l’esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che fa perdurare l’uomo in questa battaglia cosí accanita non è tanto l’amor della vita, quanto la paura della morte. […] Ciascun respiro respinge la morte che ognora incombe, con la quale noi ci troviamo a combattere ad ogni minuto, come la combattiamo, ad intervalli piú lunghi, con ciascun pasto, con ciascun sonno. Alla fine la morte deve vincere, perché ad essa apparteniamo già per il fatto di essere nati, ed essa gioca per qualche tempo con la sua preda prima di divorarsela. E noi intanto continuiamo la nostra vita con grande interesse e con grande sollecitudine, fin quando è possibile, come si gonfia piú a lungo che si può una bolla di sapone, pur sapendo certamente che scoppierà.

Il distacco per l’uomo soprattutto dell’Occidente dai beni materiali, dalla natura, dalla bellezza, dagli oggetti, ha spinto i filosofi a vedere nella morte un motivo, anzi, il motivo per riflettere sull’esistenza, spingendo l’umanità a vivere nell’autenticità della vita.

Nella sua tesi Heiddeger spiega come la morte sia vista dall’uomo del presente “come un qualcosa di indeterminato, che, certamente, un giorno o l’altro finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente, e quindi non ci minaccia.” I meccanismi per difendersi dalla paura della morte o dall’idea di essa sono rinchiusi nel ciclo tranquillizzazione, tentazione ed estraniazione: non a caso l’uomo della contemporaneità ha eliminato il concetto di disintegrazione della vita da ogni momento della giornata. Dal 1950 Gadamer, Mori e  Chanu hanno spiegato come la società del futuro abbia costituito un nuovo tabù, costruito sulla paura di accettare un destino in cui l’uomo è stato catapultato contro volontà.

La nostra è la prima cultura moderna postindustriale che non ha elaborato una cultura della morte. Che non ha un orientamento nei confronti della morte. La morte è semplicemente diventata indecente. È stata rimossa.

Ma la rimozione può essere vista come una risposta alla tanatofobia? Sostanzialmente, con il miglioramento della qualità della vita aumenta il rifiuto di distaccarsi dalle cose.

La tanatofobia colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Si presenta con frequenza in persone che soffrono di depressione, disturbi di ansia e ipocondria. Si manifesta con un forte sentimento di angoscia e di inquietudine, paura, ansia, tremolio e pianto. La sola idea di mortalità è motivo di disturbo psicosomatico.  Inoltre la tanatofobia segue il ciclo vitale: la paura della morte è quasi assente nei bambini, si afferma nell’adolescenza, diminuisce nell’età adulta (età in ci l’uomo si concentra sulla famiglia e sulla carriera), si riconferma nella terza età.

Reagire alle fobie è la prima regola per sconfiggerle: un buon ciclo di psicoterapia dona i mezzi giusti per affrontare una paura che può bloccare le normali attività quotidiane, dallo studio al lavoro, perché il terrore blocca l’individuo e lo costringe all’inattività.

Ma la paura della morte nei Millennials si è trasformata: la tanatofobia si è declinata nella paura di invecchiare. Si corre irrefrenabilmente contro il tempo, si combatte l’età e ci si sente ossessionati dall’avanzare della morte sulla pelle, sulla carta di identità, sulle prestazioni fisiche. Si contrasta il tempo con la ricerca disperata di un antidoto per l’immortalità.

Tuttavia l’immortalità non esiste, non appartiene all’essere umano. Come rispondere alla morte e al terrore che comporta? Non vi sono risposte, ma di sicuro una massima di Game of Thrones regalata da Syrio Forel può aiutare: “There is only one God, and His name is Death. And there is only one thing we say to Death: ‘not today'”.

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