L’idea di miglioramento continuo o crescita personale come valore sembra ormai di senso comune e riguarda ogni ambito della vita. Sebbene l’insoddisfazione abbia da sempre portato le persone a cercare novità, e quindi in maniera più o meno diretta a mettersi in discussione, sembra che siamo entrati in un periodo storico in cui stare fermi, rimanere come si è, sia diventato un tabù. O almeno, questa è la tesi di Svend Brinkmann, professore di psicologia all’Università di Aalborg, in Danimarca. Ne ha parlato in un saggio tradotto in italiano per Raffaello Cortina: Contro il self-help, il cui sottotitolo è Come resistere alla mania di migliorarsi.
Come siamo arrivati a questo punto?
Nella modernità liquida – chiamata anche capitalismo flessibile, postfordismo o società dei consumi – la regola numero uno è devi stare al passo. Ma in una cultura in cui il ritmo di qualsiasi cosa è sempre più accelerato, stare al passo è sempre più difficile (…) Di recente ho provato un’app di nome Spritz. Ti mostra una sola parola alla volta, ma aumenta la tua velocità di lettura da 250 a 500-600 parole al minuto. Improvvisamente sei in grado di leggere un romanzo in un paio d’ore! Ma questo ci aiuta forse a capire qualcosa in più della letteratura? Come mai la velocità è diventata fine a se stessa?
In un contesto del genere, stare fermi appare fuori luogo, perché significa non stare al passo, non essere abbastanza dinamici. In quello che Bauman ha definito “vortice globale”, ci viene chiesto di fare di più, sentirci meglio e vivere più a lungo. Questo senza entrare nel merito di cosa esattamente si faccia, di come si attivi uno stato d’animo positivo, di quale sia la qualità della vita negli anni supplementari.
Dunque, sostiene Brinkmann, le richieste della cultura dell’accelerazione alimentano di conseguenza il mercato della crescita personale. Psicologi, counselor, coach, nutrizionisti, personal trainers, ma anche medici specialisti, osteopati, consulenti per lo stile. Sono le figure a cui ci si rivolge in cerca di supporto e consigli. Per non parlare di quanti nuovi libri di auto-aiuto vengono stampati ogni anno.
E non ci sarebbe niente di male, secondo Brinkmann, se non fosse che, a suo dire, l’irrigidimento sul dogma della crescita personale continua esporrebbe a stress, depressione, senso di colpa nel caso in cui la smania di migliorare non produca i risultati richiesti. Ma anche alla perdita di vista dell’azione mossa da verità, bontà, bellezza fini a se stesse. Non ultimo all’impossibilità di accontentarsi, ad un certo punto, di quello che si è.
Per rompere questo dogma della velocità e dell’automiglioramento, recuperando l’equilibrio tra stare fermi e cambiare, e accettare i propri doveri e la propria sorte, Brinkmann popone una guida in sette passi, consapevole del paradosso di scrivere, di fatto, un libro di self-help contro il self–help.
Tra i passi suggeriti, il primo è smettere di guardarsi l’ombelico, intendendo con questo lo stare continuamente ad auto-analizzare se stessi e a compiere azioni guidate principalmente dall’ascolto del proprio cuore. Questo tipo di atteggiamento rischierebbe infatti di dare troppa importanza al vissuto interiore nel determinare il comportamento.
La ricerca della propria autenticità e l’ascolto di sé spronerebbero a cercare continuamente di migliorarsi con esiti paradossali (“se mi concentro troppo su me stesso, troverò sempre qualcosa che non va“) e moralmente discutibili (per essere cittadini virtuosi è necessario agire in base a dei valori che non necessariamente sono, diciamo così, promossi dalla propria “voce interiore”).
Come antidoto a questa tendenza, Brinkmann propone l’esercizio, ispirato allo stoicismo, del disagio volontario. Consiste nel sottoporsi a delle piccole rinunce, come prendere i mezzi pubblici in un’occasione in cui l’auto sarebbe più comoda. Questo esercizio, il cui collegamento con la tendenza criticata sembra in verità tortuoso da rinvenire, avrebbe lo scopo di farci apprezzare di più quello che abbiamo e vaccinarci ai disagi che prima o poi tutti dobbiamo affrontare. Dimostriamo così a noi stessi che può avere senso non ascoltare la propria (presunta?) voce interiore tanto spesso quanto cerchiamo di fare, e alleniamo la volontà che ci servirà a compiere azioni giuste anche quando il cuore farebbe altro.
Il libro di Brinkmann prosegue su questa falsariga. L’impressione complessiva è, tuttavia, che, per criticare la cultura della crescita personale, pur con interessanti spunti sociologici, ne prenda di mira gli aspetti più caricaturali e commerciali, tralasciando di considerare quegli autori e quelle idee, soprattutto in ambito psicologico, che rischierebbero di fare traballare le sue tesi provocatorie.
Brinkmann si rifà ai principi dello stoicismo, per come lui lo interpreta, non dicendo che gli stoici hanno influenzato filosofi, psicologi e coach che riflettono sulla crescita personale da decenni.
E così quanto c’è di condivisibile nelle sue argomentazioni (ricordarsi di agire per il bene comune, non esagerare con l’individualismo, tenere a mente il ruolo giocato dal caso e dalle condizioni socio-politiche nei destini individuali, considerare le nostre convinzioni sull’automiglioramento figlie di certi sviluppi storici) può risultare annacquato in un brodo polemico di poca qualità.
FONTI
Brinkmann S. (2018), Contro il Self-Help – Come resistere alla mania di migliorarsi, Milano, Raffaello Cortina Editore