Sarà capitato a chiunque di visitare o vivere in una “città d’arte” e sobbarcarsi l’impegno – spesso più di facciata, più illusorio che reale – di fare una coda, comprarsi un biglietto, prendere un dépliant e percorrere un museo.
“Museo dell’Arte”, spesso, oppure “di Storia dell’Arte”, o comunque un angusto luogo di ritrovo dei più sinceri geni dell’arte passata, trapiantati negli spazi decisi da transenne e aria condizionata, lontani dalle originali cattedrali, dalle caverne e dalle sale da pranzo nobiliari. Osserviamo una fremente ma spesso incanalata oscillazione tra “turismo” e “snobismo”, con qualche rara e disperata eccezione di chi ammira spontaneamente, sfortunato che comunque è costretto a sostituire la savana – i luoghi d’origine del genio – con la cattività – la pratica settecentesca del museo –.
Questo è il primo dei molti problemi legati all’istituzione museale: opere d’arte nate per i loro ambienti e immaginate per le loro committenze/intenzioni/aspettative, sono costrette agli incoerenti salti temporali delle sale di un palazzo sconosciuto, di un edificio riadattato a container di bellezze, come se gli spazi della creatività si esaurissero nella pennellata e non nell’intenzione topografica, psicologica, empatica e meditata del luogo di origine e destinazione. È raro che il bisogno evidente di luoghi adatti per contenere ed esibire opere altrimenti senza casa sia in accordo con la necessità di far fiorire ogni opera nel proprio ambiente. Ogni palazzo, per quanto bello esso sia, è nato nella sua utilità pratica, e un bel palazzo senza stanze, senza scale e senza porta, non è un palazzo. Le coordinate, nella definizione di un concetto estrinseco, comparativo e relazionale come quello di “opera d’arte”, sono gran parte della definizione.
Questo evidente e familiare problema dell’opera d’arte, figliola prodiga senza casa paterna e costretta a dormire e nutrirsi tra i maiali, ci apre la strada per la trattazione di un tema certamente scomodo: la soluzione museale.
“Museo” è una delle parole protagoniste dei principali “manifesti” del movimento futurista, sia di quelli legati alla pittura e alle arti visive, sia di quelli redatti di pugno dallo stesso Marinetti. Il Museo è custode di un passato in putrefazione, teca immobile e inumante di quel “chiaro di luna” dei poeti romantici e di tutti quegli pseudo-artisti che, in quanto superficiali compilatori di metriche passate, vengono attaccati dalle violente ed espressive invettive del nascente Futurismo.
Nel famoso Manifesto del 20 febbraio del 1909, edito dal Figaro, Marinetti canta la violenza congenita nell’Arte di quei veloci, giovani e ribelli poeti del nuovo secolo, Primitivi che, nell’alba di un nuovo sistema tecno-industriale, impugnano l’ “abitudine all’energia” contro “l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno”, qualità primarie ed elementi fondativi dell’ “estetica passatista” – come altrove verrà definito lo spirito della storia culturale dell’Occidente.
L’istituzione del Museo, come quelle della Biblioteca e dell’Accademia, non sono che un antico artificio utile alla perpetuazione di una sapienza meschina, ignorante i veloci ritmi del sapere reale e nemica dell’Ignoto e dell’Assurdo, compagni ispiratori dell’artista novecentesco.
Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie,
scrive Marinetti, che riconosceva piuttosto un valore “gridatorio e piazzaiolo” – come lo definiva negativamente Benedetto Croce – nella pratica e nella teoria estetica, costrette, nelle mura dei musei, a disperdere la loro fiamma.
Musei: cimiteri!… Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitori pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese!
È una costrizione diabolica, poiché posteriore e postuma, di una schiera senza senso di grandi maestri e antichi ingegni – di cui Marinetti riconosce implicitamente e talvolta in maniera lievemente esplicita il genio storico, la destrezza e persino l’innovazione – nella “fetida cancrena” di un corridoio troppo breve, di pareti troppo strette. La vista su una Madonna del Beato Angelico tradita dallo sguardo periferico, disturbante, inquinante su un Cimabue, su altre opere e tradizioni, tutte egualmente valide e interessanti, ma disciolte nell’essenza dalla fredda accozzaglia e dalla violenza organizzativa. Come in un “camposanto nel giorno dei morti”, le gallerie e le pinacoteche applicano indebitamente l’equazione “arte = esposizione”, confondendo l’universalità dell’opera con l’universale fruibilità, che trasforma il quadro in qualche sterile pennellata da baraccone, carcassa di un genio fallito nell’intento di conquistare l’Idea, costretta in un passeggiare inquietante e necrofilo che la ammorba e la deplora nel suo sforzo originario. Del quadro non resta la spinta vitale, ma il solo chiodo che lo appende al muro. Non è importante render conto della bellezza dell’opera, nella logica di un Museo, ma esporla ai più, nel tentativo di disseminare ciò che invece si va disperdendo.
Il Manifesto dei pittori futuristi dell’11 febbraio del 1910, firmato dalle penne di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini, si rivolge con queste parole “agli artisti giovani d’Italia”:
Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei. Ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli oggetti vecchi e dell’entusiasmo per tutto ciò che è tarlato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo e palpitante di vita.
È la mancanza di vita la malattia a cui il Museo condanna l’Arte, riducendo inoltre lo spettatore, il passeggiatore delle lunghe sale anonime, ad un pigro fruitore di anticaglie, che nelle “glorie antiche” della “terra dei morti” (l’Italia) trova una rilassante alternativa al furore della gioventù, vera detentrice dello spirito estetico futurista. L’antiquariato viola al contempo lo spirito del proprio presente e la forza provocatrice e scapigliata che, in ogni epoca e in ogni storia, ha dichiarato guerra alla tradizione ed ha portato avanti un progresso.
Come i nostri antenati trassero materia d’arte dall’atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili miracoli della vita contemporanea.
L’interesse delle parole dei pittori futuristi non è rivolto solo alla presentazione del loro lavoro creativo, ma anche allo stabilire un rapporto ben deciso col passato: il passato non va bruciato, perché esso nasce e va conservato in atmosfere ben specifiche; è il passatismo che, violando il principio di storicità e la peculiare anima dell’opera, offre il macabro pretesto per trasformare l’Arte in palcoscenico del lusso borghese e fantoccio di una sapienza bieca ed impigrita. Il Museo è lo strumento di quell’accademismo passatista che propugna un’asettica e neutrale “rifioritura di classicismo rammollito” per condannare le energie degli effervescenti e pericolosi giovani italiani al culto di un nevrotico “arcaismo ermafrodito”, trasformando il delegati dello Spirito del Tempo in compilatori di una “pittura da funzionari governativi in pensione”. Il Museo è “facilità bottegaia e cialtrona”, “necrofilia cronica”.
Il futurista offre una prospettiva acuta e demistificante su quella che potremmo definire una “forma di potere museale”. L’obiettivo politico è quello di cristallizzare un’antropologia culturale composta di snob ed esibizionisti, cultori dell’apparire contro l’essere, per cui conta più esibire una retorica accattivante che percepire un valore ed un significato estetici; di affamati lettori di etichette e didascalie, che trascorrono la loro permanenza guardando di striscio le opere (oggi, per fotografarle) e concentrandosi sulla memorizzazione di formulette ad aspirazione snobistica. Chi riesca ad uscire da questo tracciato politico è la vittima di un disagio estetico, il povero condannato ad una gogna dei propri maestri. Le opere esposte diventano idoli di interessi viziati, gli spettatori diventano maschere di qualità da avere.
Gombrich, nella sua Storia dell’arte, ricorda come l’ostacolo più difficile da superare nella fruizione di un’opera non sia quello di “etichettare”, di inorgoglirsi per il “poter dire di aver visto” con un certo grado di consapevolezza e scienza; la sfida è quella nel garantirsi sempre dal pregiudizio, dalle coercizioni scolastiche, riuscendo sempre a godere della sconfinatezza di uno “sguardo vergine”. Nella filosofia dell’arte futurista, il Museo rappresenta l’architettura della lotta a quella verginità, il mezzo di una strategia incasellante ed avvilente che mortifica gli spiriti del tempo e contiene le aspettative della gioventù. È il concetto stesso di “arte” che non permette di incasellarla in spazi e categorie angusti: se è “arte” tanto quella delle caverne di Lascaux, quanto quella di Rembrandt, quanto quella di Hirst; allora si capirà che non se ne potrà mai dare una definizione intrinseca, ma sempre comparativa, variegata, complessa. È per questo che il Museo, negli spazi concettuali della sua violenza interpretativa, canalizza gli sguardi verso una geografia che non esiste, quella dell’Arte con la A maiuscola “ben definita”, “ben ordinata”, “ben secolarizzata”, “ben neutralizzata”.
Nessuno potrebbe pretendere di restituire le opere del genio millenario degli umani ai propri luoghi di destinazione originaria e nessun futurista metterebbe a ferro e fuoco un museo. La richiesta avanguardista è piuttosto quella di restituire uno spazio “vivo” all’arte, un luogo fisico di comunione e non di commemorazione. Spazi più ristretti? Impegni ambientali più mirati alla fioritura dell’opera singola? Lavori curativi che restituiscano più dignità allo spirito dell’opera e alle esperienze degli spettatori? Marinetti, comunque, richiamerebbe all’ “eroismo metodico e quotidiano” della resurrezione, contro la riesumazione.
L. De Maria, Marinetti e il futurismo, Mondadori, Milano, 2017