Sono un osservatorio
astronomico,
ma non guardo le stelle
spio le vene, i respiri,
il buco nero del mio stomaco
la luna storta del mio cuore.
Franco Arminio è una di quelle penne che a maggior titolo, al giorno d’oggi, si merita un posto nelle antologie poetiche. Poeta dei paesi, cantore della campagna schiacciata dalla cultura dell’urbano, lo scrittore campano scavalca le corrette ortografie dell’accademico: scrive per come vive, per come vuole, sembra, come su una foglia che gli capiti di raccogliere per terra, come graffitando in giro per l’Italia nelle sue lunghe passeggiate di ricerca. Arminio è un esploratore, osservatore di quel vicino mondo di pietre e lana pecorina che sono le montagne appenniniche. Il suo obiettivo lirico, politico, storico dichiarato è quello di dar forza e vita a quel “Nuovo umanesimo delle montagne” che va professando in giro per manifestazioni, letture e sagre lungo tutta la penisola. Essendo stato candidato sindaco per la sua Bisaccia, spera che la riscoperta dell’Italia in se stessa si svolga sul suolo della terra prevalente, quelle dolci e scosse curve delle montagne che percorrono il nostro Paese da nord a sud e che conservano – tesaurizzato in natura, edilizia e tradizioni – quello spirito, anzi, quelle svariate migliaia di spiriti che fin dai tempi preistorici qualificano la bellezza composita dei nostri paesaggi.
Prima di tutto un viaggiatore, e non solo di paesi: la passione del rurale è un simbolo, certo, un vessillo del suo fanciullesco e speranzoso trottare per le realtà mancate, per i luoghi di una memoria fuori moda; ma è un simbolo, appunto, della sua casalinga e accorta emozione generale per la ricerca del bene. Arminio è un geografo del Bene, un poeta che esce di casa per vivere l’altro e spiegare, graffitandocelo da qualche parte, come abbia fatto.
Si riterrebbe con abbastanza confidenza che la sua opera più rappresentativa sia la raccolta Resteranno i canti, quella che tratteremo, nonostante il più famoso Cedi la strada agli alberi e l’amabile Geografia commossa dell’Italia interna. Persino la sua pagina Facebook, piattaforma interattiva che forse lo rende il più “social” dei poeti italiani contemporanei, è quotidianamente aggiornata con splendide intuizioni e versi spontanei.
Non pensarla la gioia, sentila,
è una fioritura nella carne,
è il maggio delle ossa,
l’aprile degli occhi.
La gioia non è un fatto,
una cosa, un luogo.
La gioia crea spazio,
scioglie, fa il vuoto.
La gioia, quella vicina ma agognata meta di ogni sforzo, non è il traguardo di un’avventura, ma lo sforzo stesso di avventurarsi. Uscendo di casa, ogni mattina, ci si approfitti di un giorno nuovo, si accendano nuove speranze e si consolino nuovi compagni. La compagnia, l’amore, le stagioni, i funerali, l’arte, le emozioni passeggere, i lenti inizi e le repentine cadute: la gioia, il dolore, ovunque. Il Bene è semplicemente riuscire a varcare la soglia del portone, che si tremi o che si esulti: vale la pena avventurarsi.
Sei nel bene ovunque sei.
Sei nel bene più grande
che è possibile avere.
Nessuna logica, nessun paradosso, nessuna antinomia: uscire è già scoprirsi e scoprire. Questo rituale quotidiano, questo esercizio di normalità, è testimoniato dal poeta in un linguaggio calmo e spedito, semplice e vigoroso. Granitico, a piccoli blocchi ordinati senza troppa estrosità, come chi vuole comunicare e non ha tempo di starsene a parlare. Arminio non s’inventa nulla: campa e scrive delle conseguenze.
Infine: gli amori non corrisposti
sono da preferire ai non amori corrisposti,
oggi così frequenti.
Un bisogno evangelico di purificazione, di depurazione dell’esterno, la miglior cura per l’interno. “Dio è il bene che facciamo/e niente di più”. Ed è tutto così giusto, calmo e riconoscibile intorno a noi:
La neve
indisturbata
nei vicoli deserti.
Vorrei prendere
tra le mani l’universo
come si prende un pettine
e con tutto l’universo tra le mani
accarezzarti i capelli.
Prendere il semplice della vita per come si presenta: semplicemente, tra i saluti alle signore di un borghetto semi abbandonato e la pretesa di restare umani, pastorali, evangelici anche in un mondo di sfrenata accelerazione. Questo è il Paese: ciò che resta, che si arrocca, che resiste ma rischia di non essere più essenza, ma al massimo nicchia o margine. Non è questo ciò che la “paesologia” vuole per l’Appennino: il cielo dell’Italia resta caldo finché le sue vene rocciose pompano luce. Il paesano, come spiegato ne L’Italia profonda, è luce. La vita da paese è semplicemente il perpetuare nella propria essenza (presente, passata e futura) di italiano.
Mai vista una primavera così bella.
La luce sembra impazzita,
è un diamante la testa del serpente,
il silenzio concima le ginestre,
sono quieti i paesi da lontano.
Non insistere a dolerti.
Ogni albero è tranquillo e felice di vederti.
Fonti:
F. Arminio, Resteranno i canti, Bompiani, Milano, 2018