L’uomo nero: una personificazione quasi fiabesca dello straniero, identificato letteralmente così per il colore della pelle e associato all’uomo nero che popola i racconti dedicati ai bambini. È la personificazione della diversità, ma è anche il cattivo della situazione. Il titolo della canzone di Brunori Sas presenta un duplice significato, un gioco di parole più che efficace, che è in grado di far riflettere prima ancora di cliccare play su Spotify.
Non è un caso che questa traccia, presente in A casa tutto bene (quarto album del noto cantautore calabrese), abbia vinto nel 2018 il Premio Amnesty Italia per il Miglior brano sui Diritti umani 2017, brano contro l’intolleranza.
Come Dario Brunori stesso ha dichiarato nel ringraziamento per il premio:
[…] visto il tema, era facile cadere nella retorica anacronistica del cantautore militante, in un’invettiva scontata contro il dilagare di nuove forme di intolleranza, contro le piccole e grandi derive xenofobe degli ultimi anni. In realtà non mi interessava tanto parlare del fenomeno in sé, quanto del fenomeno in me, come diceva qualcuno. Il fuoco del pezzo sta tutto nell’ultimo verso: “Io che sorseggio l’ennesimo amaro, seduto a un tavolo sui Navigli, pensando in fondo va tutto bene, mi basta solo non fare figli… e invece no”.
Quindi la riflessione è incentrata non su una declinazione più vasta ed estesa del fenomeno della xenofobia, bensì su una sua manifestazione strettamente individuale e personale. Non è una canzone politica: o meglio, lo è senz’altro, ma non come lo si potrebbe intendere nel suo senso più comune. Il cantautore non ha alcuna intenzione di scrivere la condanna di un certo partito piuttosto che un altro. L’uomo nero è piuttosto una grande riflessione sull’uomo, su come esso si comporti di fronte alla diversità e di come facilmente ci possa essere una regressione di umanità.
Infatti nel ritornello si può ascoltare:
E tu, tu che pensavi
Che fosse tutta acqua passata
Che questa tragica misera storia
Non si sarebbe più ripetuta
Tu che credevi nel progresso
E nei sorrisi di Mandela
Tu che pensavi che dopo l’inverno sarebbe arrivata una primavera
E invece no
Queste parole evidenziano proprio come il focus dell’intera canzone sia sull’involuzione del genere umano, sul declino delle sue facoltà morali. Su come questi quasi otto miliardi di persone, dopo qualche migliaio di anni di storia, siano ancora talmente lontani dal raggiungimento di una pace e di una serenità universali. Di come le innumerevoli battaglie legate ai diritti umani siano risultate inefficaci, se non quasi inutili.
E hai notato che l’uomo nero
Semina anche nel mio cervello
Quando piuttosto che aprire la porta
La chiudo a chiave col chiavistello
Quando ho temuto per la mia vita
Seduto su un autobus di Milano
Solo perché un ragazzino arabo
Si è messo a pregare dicendo il Corano
Qui, invece, si evidenzia come sia facile cadere nelle trappole di abili demagoghi (o, per eliminare l’accezione politica se si preferisce, di grandi retori in generale) in grado di convincere a sposare la loro opinione. È presente infatti l’immagine del seme gettato nella mente dell’altro: non è un semplice lavaggio del cervello, il meccanismo è molto più sottile. Si dissemina il germe della paura di ciò che è altro da sé.
Dopo questo primo stadio poi la pianta non fa altro che crescere nella mente dell’uomo fino a fargli cambiare radicalmente convinzioni, il tutto senza che si sia presa coscienza del processo. Non ci vuole molto: basta un po’ di disattenzione. Peggio ancora se si aggiunge che la mancanza di spirito critico diventa il terreno fertile ideale per l’assestamento di certi semi.
Ed è così che si arriva a odiare la diversità, che si arriva a guardare con sospetto l’uomo o la donna di un’altra etnia sul proprio autobus.
E io, io che pensavo
Che fosse tutto una passeggiata
Che bastasse cantare canzoni
Per dare al mondo una sistemata
Io che sorseggio l’ennesimo amaro
Seduto a un tavolo sui Navigli
Pensando “in fondo va tutto bene,
Mi basta solo non fare figli”
E invece no
Anche al buon Dario Brunori piacerebbe che il mondo si potesse cambiare con una canzone.
A tutti piacerebbe che bastasse essere in prima persona a posto con la propria coscienza per sentire di aver fatto il proprio dovere su questa terra. E invece no. Invece non basta. Non basta pensare, con una forma di ignavia latente, che se non si apprezza particolarmente il genere umano l’importante sia non procreare così da non dover contribuire alla sua perpetrazione.
Il cantautore afferma con forza che questo non basta. Che bisogna lottare, tutti insieme, affinché le cose cambino. Che bisogna credere davvero che prima o poi arriverà la primavera tanto agognata. Che ci sarà un giorno in cui nessuno cambierà marciapiede vedendosi arrivare di fronte qualcuno che è fisicamente diverso da sé. Che il germe dell’odio, prima o poi, non verrà più sparso in giro o nelle menti delle persone.
Prima o poi, però.
Un commento su ““L’uomo nero” in Italia secondo Brunori Sas”
Ho letto l’analisi fatta della canzone con molta attenzione e ne sono rimasto piacevolmente stupito. Un brano davvero molto profondo e interessante che arriva a parlare di tante cose, soprattutto della persona in sé, approfondendo in maniera molto intelligente e per niente retorica la tematica della xenofobia. Un articolo stupendo!