Nell’arte occidentale il cambiamento è sempre stato il prodotto di radicali sconvolgimenti, mai di delicati passaggi, tantomeno di educati accordi col trascorso. Non è esistito e non è possibile che esista un progresso, ma sarebbe sbagliato persino parlare di evoluzione: se è capitato che lo stile si sia arricchito, che l’espressione sia cresciuta e i modelli maturati, spesso si è invece trattato di perdere, togliere, denaturare, deformare, dimenticare, generalizzare. È la brusca pratica dello snocciolamento, del coraggioso orientamento verso il sodo, lasciando il superficiale alla tradizione.
Molti movimenti estetici, come quello Barocco o quello Ellenistico, si sono arricchiti dei loro pleonasmi, hanno fatto della ridondanza una qualità essenziale. Questo non è il caso di un percorso di rivoluzione formale che è ben lungi dall’esser definibile movimento: l’incredibile viaggio estetico del Primitivismo.
Si è soliti fissare le radici del Primitivismo europeo nell’opera polinesiana di Gaugin, attento a valori, narrazioni e simbologie indigene utili all’analisi negativa delle odiose sovrastrutture della vita europea. Ma l’arte del pittore francese non rende conto di una ricerca genuinamente orientata al puro, all’ancestrale, per come verrà intesa dalle correnti novecentesche. Infatti, se Gaugin resta tradizionalmente occidentale nella tecnica e nello spirito, i gruppi di artisti noti come Die Brücke (in Germania) e Fauves (in Francia) misero in atto una ben più radicale analisi dei valori e dei modi di quelle popolazioni che, estranee alla cultura europea, avevano sviluppato modelli espressivi assolutamente alieni agli sviluppi dell’arte intesa in senso proprio.
Il primitivo che si va cercando non è l’Eden, ma non è nemmeno il Brodo Primordiale. Infatti l’attenzione teorica dei primitivisti è più o meno la stessa di Jean Jacques Rousseau (curiosamente omonimo di un grande pittore primitivista come Henri Rousseau) nel suo Secondo Discorso: l’ideazione di un modello generale, posto su basi concrete, di quella che è la società più vicina all’originario formale dell’essere umano, ai suoi gusti atavici, alle sue sfere e narrazioni morali e spirituali più pure.
Va notato come, nonostante le premesse entusiasmanti, questo ritorno al viscerale sia intrinsecamente viziato da pregiudizi tipicamente occidentali: dal considerare, macchiandosi di un bieco etnocentrismo, le popolazioni africane o amerindiane primitive poichè non-europee; al cercare in queste società qualcosa come l’arte, concetto che ha una storia e un’origine esclusivamente nostrana, e che è molto distante da quegli elementi di rappresentazione e, se vogliamo, mimesi, che assumono un valore totalmente diverso in altri luoghi della terra.
Quindi è una lettura antropologica, quella dei movimenti primitivisti, malata di un inconsapevole e consueto tradizionalismo.
Sebbene non si tratti dunque di un radicale cambio di prospettiva in favore della spontaneità culturale primitiva, la poetica di artisti come Matisse, Kandinskij e Klee ricerca lo schiudersi puro dell’emozione, quell’intensità emotiva che solo l’allora detta “arte negra” poteva scoprire. Si trattava, nelle parole di Goldwater, di “ridurre la distanza psichica tra l’autore e l’opera”.
La prima tappa di questo nuovo processo antico è quella di semplificare il soggetto: si pensi alle scarne geometrie di Klee o alle infantili sagome di Nolde. Il secondo passaggio richiede invece di generalizzare lo spazio e le figure, sottraendole da ogni aspetto circostanziale – e quindi eliminabile -, mettendo al bando l’episodio e conservando la sola immagine simbolica. Il dettaglio iconografico diventa eliminabile, il ritratto diviene maschera, il soggetto diventa impersonale. Alla genesi di questa ideologia poetica c’è l’opera di pensatori come Gottfried Semper, che ha trattato le cosiddette forme elementari della rappresentazione primitiva come espedienti antropologici per dire qualcosa di originario, preistorico e universale sullo spirito umano.
Esisterebbero cioè dei principi e delle forme naturali inscritti nella genetica umana, che si troverebbero alla base di ogni invenzione, al punto che la stessa creatività umana non sarebbe che la risultante delle variazioni sullo stesso tema di questi principi universali. Per il teorico primitivista la verità si conserva nelle conseguenti tappe dello sviluppo umano, e la natura stessa dell’umano sarebbe ancora custode e portatrice di un’emotività arcaica, inscritta in uno spirito inevoluto e soggetta al richiamo di simboli e condizioni estetiche che la innescano.
Cosa osserviamo, in fondo, in una maschera africana?
Rimaniamo esterrefatti di fronte all’estremo aspetto dell’anonimia, che pure è così libera da sfondi suadenti ma meccanici come quello della prospettiva, del contesto o dell’allegoria. La possibilità di un sentimento di ricchezza privativa, lo spettacolo di un oggetto tanto mio quanto di chiunque altro. Le forme di ciò che si presenta sensibilmente rinvigorito intellegibilmente da una strana memoria preistorica: un oggetto-chimera, un risultato di figurazione e sentimento antropomorfo.
C. Sereni, L’Oggetto-persona, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2018