La lezione di danza

E cinque, sei, sette, otto. Contavamo così, a lezione. Non uno, due e tre. Partivamo da metà. Il conto era quello, punto e basta. Mentre danzavamo eravamo passi sui numeri da cinque a otto. Nel caldo soffocante d’estate e nel gelo da brividi d’inverno, col sudore che colava lungo la schiena e sulle tempie o con i tremiti nei muscoli che non riuscivamo a scaldare, i nostri piedi sul palchetto ormai rovinato, le righe di pece bianca e le punte di gesso che sbattevano a ogni salto.

E cinque, sei, sette, otto. L’asciugamano appoggiato alla sbarra cadeva dopo qualche minuto, le forcine si sfilavano dai capelli e i nastri erano da riannodare. Chiuse nella nostra aula, davanti a uno specchio grande come una parete. Nessuno sapeva quanto sforzo ci fosse nel far apparire le cose naturali e prive di sforzo. Solitamente, a metà lezione iniziavamo a sentire i piedi gonfiarsi e il sangue scorrere in piccoli e sottili rivoli dalle vesciche, dalle spelature e dai graffi, all’interno delle graziose scarpette di raso rosa.

Ripetere, ripetere, ripetere fino allo sfinimento. Quando l’insegnante ci concedeva una pausa ci sdraiavamo con la schiena sul pavimento e appoggiavamo le gambe sollevate contro il muro, respiravamo forte e cercavamo di controllare i battiti dei nostri cuori.

A volte passavamo ore praticamente immobili, dritte come fusi, con una mano appoggiata alla sbarra, a contare un notturno di Chopin. Movimenti appena accennati, quasi impercettibili che però richiedevano uno sforzo disumano. Era tutta una questione di forze che si respingevano, di spinte opposte, di muscoli che si contraevano e che si allungavano nello stesso momento; eravamo continuamente dilaniate, continuamente strappate in due, ed era quello il segreto della leggerezza.

Quando sorridevamo le nostre labbra erano tirate e tagliate, spellate e secche, facevano male. Gli zigomi facevano male. La radice dei capelli tirati negli chignon faceva male. Eppure la maggior parte delle volte neanche ce ne accorgevamo, del dolore. Eravamo dei fasci di nervi, impegnate a ricreare il movimento perfetto, a addomesticare ogni singolo muscolo del nostro corpo. Avevamo la passione e l’adrenalina che sopisce ogni graffio e ogni livido, l’antidoto più forte contro la stanchezza, la spossatezza e la fatica. Finché nel sangue avevamo in circolo quella, avremmo potuto andare avanti per ore, e ore, e ore. Ed era ciò che facevamo, instancabilmente, sulle note di un pianoforte più o meno accordato, sotto le mani di un pianista più o meno bravo.

Eravamo strati di calze, di body uno sopra l’altro, di colori disomogenei che cozzavano tra di loro, eravamo gomitoli morbidi, flessibili, sinuosi, rosa confetto, verde, rosso, blu, nero, azzurro. Eravamo sudore, sudore, sudore. Odore di sudore, niente di più lontano dall’immagine delle ballerine che profumano di rosa. Odore di respiri affaticati, trattenuti, esalati, caldi, pesanti. Eravamo pelli non uniformi, piene di difetti, più chiare e più scure, soprattutto arrossate e livide, lì dove gli elastici e i nastri lasciavano i segni, sulle spalle, sulle clavicole, sulle caviglie. Eravamo arcobaleni che passavano dal rosa al rosso, dal viola al blu scuro.

Quando il conto partiva, “cinque sei sette e otto”, tutto ricominciava da dove ci eravamo interrotte. Era il conto della ripresa, del passo interrotto, del movimento spezzato che ora andava continuato, che doveva arrivare a una fine.

L’insegnante si accendeva un’altra sigaretta, soffiava via una prima boccata di fumo verso la sbarra, e noi sentivamo un bisogno disumano di nicotina. La respiravamo da lei, riempiendoci i polmoni che si dilatavano al massimo per contenere il più ossigeno possibile. E cinque, sei, sette, otto. Un colpo secco di gesso sul legno, una punta che triturava i cristalli di pece nella cassetta al fondo dell’aula, con cattiveria, convinzione, stanchezza.

Negli spogliatoi, a fine lezione, ci toglievamo le scarpette, umide, appiccicose, annerite. Con lentezza e sofferenza, finalmente deboli e fragili, finalmente noi, mortali, doloranti, ci strappavamo i cerotti dalle dita. Guardavamo la pelle che rimaneva attaccata, le vesciche che esplodevano, il sangue che si era seccato durante la lezione e quello che non smetteva di scorrere. Ficcavamo i piedi dentro a grandi bacinelle piene di ghiaccio e per un attimo sospiravamo chiudendo gli occhi. Sentivamo ogni singolo livido, ogni singola piaga, ogni contusione, ogni dito, ogni articolazione del tarso, del metatarso, e di tutto quello che poteva esserci in un piede.

Appallottolavamo i vestiti sudati, li buttavamo nei borsoni, ci sdraiavamo sulle panche a fissare il soffitto, con ancora nelle orecchie quel passaggio maledetto di Satie che ci aveva accompagnato per almeno due ore. Non smettevamo mai, in realtà. Le note continuavano dietro le nostre tempie, i muscoli continuavano a contare ormai dotati di una vita propria, tutto quello che potevamo fare era staccare lo sguardo, i nervi degli occhi, le pupille, i bulbi oculari, le retine e le cornee, staccarle dal mondo e spegnerle almeno per un attimo. Per questo fissavamo il soffitto, perché non vedevamo più niente. Non volevamo più vedere niente.

E cinque, sei, sette, otto.

 


 

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