Il Discorso sul metodo (1637) di René Descartes è uno dei testi più piacevoli, raccolti e rivoluzionari della storia della filosofia moderna. Questo ingegnoso lavoro di prassi filosofica è allo stesso tempo una splendida autobiografia intellettuale, un lucido manifesto programmatico e un pervasivo esercizio spirituale per le menti che vi entrano in contatto per la prima o per l’ennesima volta. Non è un caso che sia tra i primi scritti filosofici ad entrare nelle librerie dei liceali o dei neo-universitari, e questo perché non c’è più chiara, fresca e suggestiva impronta di quello che è de facto il lavoro filosofico.
Lontano dai tecnicismi troppo fitti del mestiere, da quei complessi sistemi e concetti di cui lo stesso Descartes si serviva e costruiva in altre celebri opere, il discorso rappresenta il più riuscito esempio storico (almeno a giudicare dalla sua popolarità) di scritto meta-filosofico.
Ma non solo: infatti nella stessa intenzione dell’autore non c’era solo il bisogno di esporre le sue evidenze, far chiarezza sul suo metodo e disporre il proprio lavoro intellettuale; c’era pure il sacro e nobile bisogno di render conto dello spirito del suo pensiero, del suo pensiero umano – quello che, nel suo francese, giocando un po’ con le parole, ci renderemo conto essere un “esprit del suo esprit”. Quelli di Descartes sono forse la filosofia, la scienza ed il sistema più complessi del pensiero moderno pre-kantiano. Vittima dei più brutali e sostenuti fraintendimenti, la sua opera rappresenta, agli occhi di qualunque dilettante o professionista, la più torbida congerie di sovrapposizioni, allusioni e apparenti contraddizioni dal punto di vista logico, metafisico e spirituale. Le più famose ed evidenti obiezioni al suo sistema riguardano il complesso apparato strutturale dell’ ”unione mente-corpo” ma, allo stesso tempo, della loro netta divisione sostanziale. Ma Descartes, quando c’è da sindacare, mette d’accordo tutti: troppo materialista per alcuni, troppo psicologista per altri, troppo razionalista per alcuni, troppo ermetico per altri. Il suo Discorso rappresenta in uno schizzo questa sfrenata e complessa personalità (umana e filosofica), nel racconto di un individuo e di una mente che, nella sua profondità, tocca i punti più sublimi del pensare. Pochi, nella storia, seppero pensare al livello di Descartes.
Per cominciare a trattare del Discorso, partiremo dalla Parte quarta, che delinea le domande essenziali e il linguaggio originario del pensiero dell’autore.
Secondo Carlo Sini a Descartes – e in particolare al Discorso – dobbiamo
“gran parte di quello che siamo […] nel nostro coraggio, e insieme nelle nostre debolezze, nei nostri irresolubili dubbi e problemi, nei nostri perduranti errori e orrori”.
L’errore è una tematica centrale nella meta-filosofia cartesiana. Nel particolare, l’errore più grave della storia della filosofia sarebbe stato quello di confondere le “nozioni primitive” di corpo, mente e quella della loro unione. Abituati ai lasciti di un’infanzia che riduce tutto il vissuto a sensibilità e piaceri-dispiaceri sensoriali, convinti da quella filosofia aristotelico-tomista che esista qualcosa come un principio vitale, un’anima che “dà vita” (De Anima) al nostro corpo, in cui essa si confonde; abbiamo finito per fraintendere quelle che sono due res, due cose, due sostanze infinitamente diverse, opposte nelle proprietà e distinguibili sul piano logico: la mente, che è indivisibile, immortale, immateriale e identificabile col pensiero; ed il corpo, che è discreto, corruttibile, materiale come tutto il resto della materia e descrivibile unicamente nei termini della sua estensione.
L’opposizione tra res cogitans e res extensa, nella sua complessa ed elegante semplicità teorica e nei suoi fitti ed intricati corollari, è l’antidoto teorico a quei pregiudizi che annebbiano la ragione e ne proibiscano la corretta emendazione. Si pensa che il “rosso” sia una qualità intrinseca di un corpo, quando esso è solo il risultato mentale di un’impressione sensoriale; si pensa che il mondo abbia un’anima, quando esso sussiste nella sua mera meccanicità; si pensa che il fatto che la mia coscienza percepisca, conosca e frequenti il mondo delle cose determini l’esistenza di quel mondo, quando in realtà un Genio Maligno potrebbe far sì che questa sia tutta un’illusione, un Matrix, che io sia un cervello in una vasca.
Ora, Descartes, come molti suoi contemporanei, ha fondato su basi metafisiche tutta la sua scienza e il suo pensiero, risultandone un sistema strepitoso e a tratti ineccepibile. Ma questo modello nasce con un problema di fondo: la proposizione fondamentale della metafisica cartesiana, “Io penso, dunque sono”, potendo anche “fingere che non avevo alcun corpo” ed essendo “una sostanza la cui essenza o natura non consiste in altro se non nel pensare […] né dipende da alcuna cosa materiale”; sembra entrare in aperto contrasto con la dichiarazione di fede materialista dello stesso autore, che è la più forte dell’epoca moderna e la più influente della scienza classica. Come può, insomma, un mondo che non è altro che estensione, corpuscoli e movimento convivere con un principio fondativo della possibile conoscenza di esso che sia immateriale?
Come s’includono, come collaborano materia e pensiero?
A questa leggendaria questione tentò di rispondere praticamente ogni filosofo o talvolta scienziato dal Seicento a oggi. Di solito, però, ad esclusione delle menti in grado di riconoscere e confrontarsi con la grandezza della metafisica di Descartes, il dibattito si sclerotizza sull’opposizione tra
1) chi si accontenta di una banale, non ragionata e dogmatica fede ultra-materialista, bollando Descartes come un frivolo asceta (Descartes, l’inventore della matematica moderna).
2) chi si accontenta di leggere in questa originale metafisica una declinazione irrilevante della psycologhìa platonica.
Ai primi risponderemmo che, se non basta nemmeno addentrarsi nelle profondità ermeneutiche dei testi cartesiani per capirne la reale essenza, tanto meno basterà una disonesta lettura approssimativa per coglierne non solo le implicazioni profonde, ma anche le più evidenti coordinate ideologiche. Ai secondi risponderemmo che, oltre all’evidenza testuale della negazione cartesiana della teoria del nauta platonico, Descartes non parla dell’anima come di un ospite “per accidente” nel corpo materiale, ma come allo stesso tempo 1) il polo di un assoluta e piena sostanzialità e 2) l’oggetto perfettamente reale di un unione inestinguibile dal corpo. Basterà questa breve rassegna tematica, se non ad incuriosire nell’approfondimento di un sistema più-che-complesso, almeno a render conto di una filosofia funzionalmente complessa e infinitamente onesta e ragionata?
Nelle coordinate date dalla Parte quarta, continuiamo l’analisi del Discorso, stavolta non in merito ai fondamenti e alle soluzioni intellettuali, ma riguardo al modo stesso in cui Descartes portava avanti il suo lavoro, insomma: la psicologia del suo genio.
La ragione, ossia “la facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso” è “per natura uguale in tutti”, “tutta intera in ciascun uomo”.
Il Discorso inizia con questa potente e a tratti ottimistica constatazione, che affermando l’uguaglianza come condizione comune alla ragione di chiunque, chiama in appello l’annosa questione circa la sua negazione: gli uni sono più ragionevoli di altri? No, risponde Descartes, di contro a tutta quella tradizione platonica, ficiniana e misterica che, diffusissima tra tutte le fazioni del pensiero moderno e tardo-medievale, negava all’uomo qualunque la possibilità di avvicinarsi ai “misteri”, ai “segreti” della natura.
Con Descartes, Galilei, Bacone ed altre menti brillanti, la natura non è più scritta nel linguaggio codificato dei maghi e nei termini antropomorfi di una conoscibilità “di classe”, “patrizia”. La natura è la stessa agli occhi e alle menti di tutti, ed è solo per merito o per colpa delle “vie diverse” per cui conduciamo la nostra comune ragione che conosciamo o fraintendiamo. È una questione di tragitto.
Questo, però, non può essere insegnato da un maestro o appreso secondo metodi specifici: il Metodo attraverso cui condurre la ragione per le vie della verità è di sua natura individuale, autodeterminato, maturato nella mia particolare esperienza. Gli uomini, i collegi, i santi, gli intellettuali, i monaci e le scuole ci insegnano favole, storie, magie, filosofie, matematiche, ma questo gradito rifornimento può divenire un incessante accumulo, che permetta il distacco dalla propria ragione naturale e faccia diventare “stranieri nel proprio paese”. Il tragitto che la mente deve seguire non è volto all’antichità, né alla ragione d’altri, né ai precetti permeati nell’incontro di maestri. L’unico maestro decisivo per la nostra ragione è la nostra ragione stessa, viaggiatrice, contemplatrice, lettrice, autonoma.
“[S]pesso le opere costituite di più parti e realizzate dall’apporto di diversi artefici, non raggiungono quel grado di perfezione che hanno invece le opere ottenute dalla mano di un solo maestro”.
L’annosa faccenda dell’eteronomia del pensiero o della sua autonomia: se Cicerone credeva che la grandezza di Roma fosse stata determinata dalla costruzione progressiva dello Stato e dalla mancanza di un legislatore unico come Teseo, Solone o Licurgo, per Descartes è solo il lume individuale di Licurgo ad aver deciso della grandezza di Sparta, laddove una ragione che non viaggi tutta sotto una “stessa finalità” non è che confusione irrazionale. Bacone e Leibniz, invece, parlavano di una comunità di scienziati come unica fonte di un sapere vero, limitandosi collegialmente l’estro individuale. Ma il fine di Descartes, qui, è tutto meno che individualista: è solo nella saldezza della ragione del singolo, sì mutevole e sì plastica, ma orientata decisivamente nel viaggio, che si può costruire una comunità. L’apparato delle scienze non è un’accozzaglia d’idee individuali, ma la collaborazione di menti autonome e disinteressate.
“Come un uomo che cammina da solo e nelle tenebre, decisi […] di procedere così lentamente e di usare tanta circospezione in ogni circostanza, che se anche avessi fatto dei minimi progressi, avrei tuttavia evitato almeno di cadere”.
Nel cammino solitario, l’amore per il dubbio, l’interesse per l’errore. Gli ostacoli nel tragitto sono sia rocce da scavalcare che indicatori di un passaggio, cippi sulla strada. Divenire padrone del Metodo non significa fingere di non vedere quelle rocce, ma saltarle e risaltarle, fino ad avere polpacci di marmo.
Alla base del suo Discorso, che è tanto un esercizio spirituale quanto un manuale di sopravvivenza scientifica, Descartes pone delle discipline propedeutiche ad ogni tragitto: la capacità di distinguere cose diverse, la capacità di distinguere il vero dal falso e la capacità di dar credito solo all’esperienza, non alle ipotesi, non all’autorità, non alle voci, solo alla personale certificazione. È qui che l’interesse meta-scientifico e quello purificatore si intersecano: la libertà intellettuale dell’individuo non si deve tradurre in adesione incondizionata, ma deve imbarcarsi in una sempre più profonda conoscenza di se stessa e del mondo per come lo vede, senza pregiudizi e senza interessi personali.
R. Cartesio, Discorso sul metodo